La direttiva UE per le cosiddette “case green” è giudicata positivamente dal dr. Mattia Adani, presidente dell’Unione europea delle Industrie dei Lubrificanti. “L’investimento potrebbe comportare benefici importanti e a lungo termine per la nostra economia - afferma in questa intervista-. Bisogna anche considerare che le tecnologie e la forza lavoro per ristrutturare gli edifici si trovano tutte in Europa. La misura insomma non sposta lavoro al di fuori del nostro continente”. Per varie ragioni invece Adani è critico sulle misure europee riguardanti le auto elettriche. Una di queste è che si sposterebbe “lavoro dall’Europa all’Asia”.
La sua attività imprenditoriale e i ruoli istituzionali da lei ricoperti, dr Adani, l’hanno portata a interessarsi da vicino alle politiche di efficientamento energetico e miglioramento ambientale promosse dall’Unione Europea. Recentemente lei si è espresso in maniera diversa sulle misure europee riguardanti la diffusione delle auto elettriche e su quelle in campo edilizio, criticando le prime e approvando le seconde. Vogliamo iniziare dalle prime?
E’ importante sottolineare che l’industria europea condivide l’importante obiettivo di rendere la nostra economia quanto più possibile indipendente dall’utilizzo di fonti fossili quali il petrolio, il metano e il carbone. Questo non solo per ragioni di carattere ambientale, ma anche ai fini della autonomia e indipendenza strategica del nostro continente. Petrolio e metano sono materie prime critiche e problematiche, per le quali si sono combattute e si combattono guerre. La critica che importanti parti dell’industria europea stanno facendo alle politiche comunitarie sulla mobilità, tra cui l’imposizione de facto dell’auto elettrica con tempistiche forzatamente brevi, non riguarda quindi tanto i fini, ma piuttosto le modalità con cui si sta operando. Le istituzioni sono apparse cieche rispetto alla diverse opzioni tecnologiche possibili e sorde rispetto alle osservazioni dell’industria europea. La scelta dell’auto elettrica, e l’esclusione dei bio-combustibili, oltre ad imporre costi molto alti alla nostra economia e ai nostri cittadini, rischia di creare un’altra dipendenza per l’Europa, quella dal litio, di cui siamo parimenti sprovvisti, nonché a spostare lavoro dall’Europa all’Asia, a danno dei nostri lavoratori. Il bilanciamento di costi e benefici per l’Europa è a mio avviso estremamente sfavorevole.
E sull’insieme delle norme del progetto “case green” invece cosa pensa?
Su questo la visione è diversa. In questo caso l’approccio seguito dalle istituzioni europee è meno ideologico. Si sono fissati obiettivi, senza imporre specifiche soluzioni tecnologiche. Inoltre sebbene sia indubbio che tale misura comporterà costi importanti per i cittadini - come molti correttamente segnalano - l’investimento potrebbe comportare benefici importanti e a lungo termine per la nostra economia. Gli edifici, considerando la costruzione, l’illuminazione, il riscaldamento e il raffrescamento, sono responsabili di circa il 40% dei consumi energetici europei. Tutta la mobilità, come rifermento, consuma la metà, circa il 20%. Un aumento dell’efficienza energetica degli edifici avrebbe pertanto un impatto importante sull’indipendenza europea. Inoltre i costi sarebbero a tutti gli effetti degli investimenti, con risparmi futuri certi a fronte di una spesa iniziale. Molto diverso dal caso dell’auto elettrica, che costa di più inizialmente, e non necessariamente meno nel corso della vita intera. Infine bisogna considerare che le tecnologie e la forza lavoro per ristrutturare gli edifici si trovano tutte in Europa. La misura, insomma, non sposta lavoro al di fuori del nostro continente. Il bilanciamento tra costi e benefici sembra in questo caso molto più equilibrato.
Coloro che nel nostro Paese criticano la direttiva europea sulle case green sostengono che la sua applicazione sarebbe troppo costosa sia per lo Stato che per i singoli cittadini. Cosa c’è di vero?
E’ indubbio che i costi rischiano di essere molto alti. Certamente bisognerà capire come rendere sostenibile la misura anche economicamente, soprattutto per i cittadini meno fortunati. Questo penso sia la preoccupazione di molti, tra cui il nostro governo. La misura del superbonus è costata ben oltre 100 miliardi di euro ed ha interessato solo circa il 3% delle abitazioni. Le nostre case sono oggi energeticamente inefficienti. Lo sono ora, lo erano meno in passato. I muri erano spessi e le finestre erano piccole. Abbiamo vissuto un periodo di energia a basso costo e, pensando che fosse eterno, abbiamo costruito case belle, ma inefficienti e costose in termini energetici. Dobbiamo ora mantenere la bellezza, ma recuperare l’efficienza. Possiamo farlo. Le tecnologie moderne ce lo consentono. Bene fa il nostro Governo a cercare di migliorare la direttiva se lo ritiene necessario. I tempi richiesti sono troppo stretti, ed andranno diluiti. La direzione, però, è quella giusta.
Fra gli argomenti a favore della direttiva europea uno riguarda la riduzione delle emissioni nocive: visto che ciò è necessario per la salvezza del pianeta e dell’umanità è meglio muoversi prima che sia troppo tardi. E’ un argomento valido? Le scadenze sono chiare: per le abitazioni private i consumi di energia devono calare del 16% entro il 2030 e del 22% entro il 2035; per gli edifici pubblici i tempi sono ancora più stretti, e negli immobili di nuova costruzione a partire dal 2030 si potranno installare solo pannelli fotovoltaici. Ci sono margini per diluire i tempi d’attuazione oppure in tal caso rischieremmo di peggiorare la situazione in maniera irrecuperabile?
Il cambiamento climatico è indubbio. Agire è impellente. L’Europa però emette circa il 7% delle emissioni mondiali, le case valgono il 40% e quindi circa il 3% a livello globale. Rendere le nostre case più efficienti del 16 o del 22% ridurrà le emissioni globali di meno dello 0,6%. Non abbastanza per produrre effetti significativi. Purtroppo non siamo determinanti. Imporre marce forzate rischia solo di spossare la nostra gente, creando resistenze che possono divenire controproducenti. Il nostro ruolo sarebbe invece quello di mostrare al mondo che una economia effettivamente sostenibile è possibile, non solo ambientalmente, ma anche socialmente. Dobbiamo stare molto attenti a non forzare troppo le tappe e a non lasciare nessuno indietro.
Secondo uno studio di Fillea Cgil in Italia le ristrutturazioni riguarderanno il 15% degli edifici in classe F e G e il 26% di quelli in classe energetica più bassa. Complessivamente si dovrà intervenire su mezzo milione di edifici pubblici e 5 milioni di costruzioni private. Il nostro sistema produttivo è attrezzato per realizzare un’opera così ingente nei tempi prescritti?
L’industria europea ed italiana sono dotate di tutte le competenze tecnologiche e umane per realizzare l’obiettivo. Bisogna però stare attenti a concentrare gli sforzi in un periodo troppo limitato, in quanto si rischia di creare, come un po’ è successo durante il superbonus, una bolla speculativa sul costo dei materiali. I costi, già significativi, rischiano di diventare ancora più alti.
Secondo le analisi di Cresme e Symbola il costo globale della mastodontica impresa cui sono chiamate le aziende edilizie italiane sarà compreso fra 260 e 320 miliardi di euro. Sarà necessario ricorrere agli incentivi statali? Come dovrà essere modulato l’intervento pubblico per evitare una lievitazione eccessiva dei costi?
L’Italia sta soffrendo una crisi bulimica di bonus ed incentivi. Gli incentivi pubblici funzionano solo quando sono effettivamente mirati ai cittadini meno fortunati e riguardano segmenti limitati. Non si può ipotizzare di incentivare la quasi generalità della popolazione. Sarebbe una partita di giro o un indebitamento a carico delle generazioni future. In entrambi i casi vi è il rischio di fortissime ingiustizie. La strada da seguire non è quella degli incentivi, ma con regole che chiedano di realizzare misure effettivamente mirate a ridurre i costi futuri delle abitazioni e che quindi siano, almeno nel medio termine, convenienti per chi le attua.
L’Associazione Nazionale Costruttori Edili (Ance) ritiene che la messa in atto della direttiva “case green” produrrà effetti positivi non solo sull’ambiente ma più in generale sul sistema economico. L’Ance sostiene che un miliardo di investimenti produrrà un valore aggiunto di un miliardo e cento milioni. Lei condivide l’opinione che l’economia italiana nel suo complesso trarrà giovamento da questo grande piano di ristrutturazione verde?
Si, concordo con la visione di Ance. L’investimento sarà importante, ma anche il ritorno economico.
E per quanto riguarda il mercato del lavoro, quali benefici deriveranno dalla direttiva europea? Sempre l’Ance calcola che si creerebbe un forte incremento dell’occupazione. I dati Cresme rivelano che nel triennio 2020-2022 gli incentivi fiscali (compreso il discusso e controverso superbonus) hanno generato oltre 1,9 milioni di nuovi occupati, il triplo della media nel decennio 2011-2019. Cosa c’è di vero in questo e come si può affrontare in rapporto al futuro il discorso sul nesso tra ristrutturazioni green e sviluppo occupazionale?
Le ristrutturazioni green comporteranno lavoro in Europa, a differenza della direttiva sulle auto elettriche. Le istituzioni devono essere attente anche a questi aspetti quando producono normative.
Un altro beneficio dell’edilizia verde per quanto riguarda i cittadini e le aziende potrebbero essere i risparmi sul costo delle bollette. Sono quantificabili o si rischia di disegnare scenari eccessivamente ottimistici che non tengono conto di altri fattori da cui potrebbero derivare rincari anziché sconti?
L’efficienza energetica di una casa impatta significativamente sulle spese di riscaldamento e raffrescamento. Il minor consumo genererà un effetto positivo sulle bollette. L’efficienza dell’abitazione però è solo uno dei fattori. I nostri comportamenti sono anche molto importanti. Spegnere sempre le luci, come ci insegnavano i nostri nonni, o non fare andare riscaldamento e raffrescamento con le finestre aperte sono cose altrettanto importanti. Bisogna inoltre capire quale sarà il costo dell’energia in futuro. Se incentivi sbagliati fossero scaricati sui costi dell’energia i benefici potrebbero essere annullati.
Infine una domanda a cui le chiedo di rispondere nella veste di presidente dell’Unione europea dell’industria dei lubrificanti. Come vede il futuro del suo settore produttivo in rapporto alla transizione green dell’economia mondiale? Lei una volta ha affermato scherzosamente (ma forse non tanto) che anche i robot hanno bisogno di essere oliati, intendendo dire, credo, che è impossibile rinunciare del tutto a sostanze e prodotti non assimilabili alla categoria “green”. E’ così?
L’industria dei lubrificanti è una delle industrie più antiche della nostra civilizzazione. L’utilizzo di lubrificanti è documentato nella piramide di Saqqara, quando veniva utilizzato per trascinare le statue. Quando la ruota da vasaio, la prima macchina industriale, è stata realizzata in Mesopotamia, un lubrificante era lì. Anzi è stato proprio l’olio minerale, che in quelle zone usciva naturalmente dalla terra, a renderla possibile.
Saponi di calcio, che non occorrono in natura e quindi sono stati prodotti da un antico chimico, sono stati trovati nei carri egiziani dei tempi di Ramesse II. Plinio Il Vecchio, nella sua Historia Naturalis ha trattato dei lubrificanti, che allora, come ora, erano elemento necessario per il funzionamento dei carri, e quindi per la mobilità dei romani. I primi studi scientifici sull’attrito sono dovuti niente di meno che a Leonardo da Vinci. Ad oggi la nostra industria sta sviluppando lubrificanti per le missioni su Marte. I lubricanti sono elementi essenziali per l’efficienza energetica di un qualsiasi macchinario ed esistevano anche prima dell’avvento del petrolio. Sappiamo e possiamo farli anche senza materie prime fossili. Fintanto che la nostra civilizzazione sarà basata sulle macchine la nostra industria esisterà.