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Come governare la globalizzazione per favorire nuova e buona occupazione. L’analisi dell’economista Lucia Tajoli

GIOVEDÌ 04 MAGGIO 2023 | Lascia un commento
Foto Come governare la globalizzazione per favorire nuova e buona occupazione. L’analisi dell’economista Lucia Tajoli
Scritto da Gabriel Bertinetto

La “globalizzazione” dell’economia non è una minaccia per l’occupazione, se governi e imprese gestiscono correttamente le fasi di passaggio nelle quali le produzioni che sono diventate obsolete vengono abbandonate e ci si sposta su altre attività. Così spiega in questa intervista Lucia Tajoli, professoressa di Politica Economica al Politecnico di Milano. “I dati empirici -afferma la docente- dimostrano che nel medio-lungo periodo gli effetti della globalizzazione sono positivi. Problemi possono sorgere però nel breve periodo per i lavoratori di aziende costrette a chiudere dalla concorrenza internazionale, se non viene assecondato adeguatamente il loro riassorbimento in altri settori in crescita”.

 

Imprenditori, sindacati, politici, studiosi giudicano nei modi più diversi l’impatto che la cosiddetta globalizzazione e i fenomeni economici collegati, come la “delocalizzazione”, hanno sul mercato del lavoro nel nostro e negli altri Paesi sviluppati. Quali sono le sue valutazioni, professoressa Tajoli, che come docente di Politica Economica al Politecnico di Milano ha svolto ricerche proprio sull’internazionalizzazione delle produzioni e dei commerci?

Basandomi su ciò che emerge dai dati concreti posso dire che in linea generale la globalizzazione provoca un aumento e non un calo dell’occupazione. L’apertura ai mercati internazionali non induce solo generiche nuove opportunità d’impiego, ma potenzialmente crea buoni posti di lavoro. A questa affermazione va premesso un grosso “se”. Quel che ho detto infatti vale se la globalizzazione viene organizzata in maniera corretta. Intendo dire che l’apertura ai mercati internazionali permette sì ai Paesi di specializzarsi nei settori più produttivi e in questo modo creare nuova occupazione. Ed è anche vero che sul piano empirico si può documentare come non esista paese che si sia aperto agli scambi ed abbia in conseguenza di ciò subito un calo occupazionale. Però è altrettanto vero che la globalizzazione può declinarsi in vari modi e ci sono Paesi che l’hanno gestita malamente. L’apertura all’import e all’export implica infatti una serie di cambiamenti nell’economia dei Paesi coinvolti. Alcuni settori si espandono, altri si contraggono. E qui nasce il vero problema che riguarda il mercato del lavoro, vale a dire la capacità di gestire bene questa fase di transizione. Non ci sono dubbi sugli effetti positivi nel medio o lungo periodo. Ma nel breve termine il settore esposto alla concorrenza estera vede alcune imprese chiudere e molte persone restare senza lavoro. In un Paese che funzioni quella disoccupazione nel medio periodo viene riassorbita in altri settori in crescita. Il problema sta nell’essere organizzati per gestire bene quella fase di transizione, e avere delle politiche per il lavoro che sappiano gestire il cambiamento. In altre parole non ci si può inserire nel flusso della globalizzazione restandosene con le mani in mano.

 

Lei vede in Italia una buona attitudine a gestire la transizione?

Purtroppo no. Altri Paesi affrontano queste fasi temporanee promuovendo il re-training e supportando il reddito delle persone nel periodo in cui lasciano un’occupazione e non hanno ancora trovato la successiva. Da noi questo non accade. Non essendo capaci di gestire la transizione, si cerca piuttosto di impedirla. Il risultato è che alcune aree produttive comunque si rimpiccioliscono ed espellono forza lavoro, mentre altre che potrebbero riassorbire i disoccupati crescono troppo lentamente. Così finiamo per trovarci sempre in mezzo al guado. Bisognerebbe capire invece che se un soggetto estero ci fa concorrenza in genere ciò avviene quando e perché riesce a fare certe cose meglio di noi. Evitare che un’impresa chiuda e tenerla artificialmente in vita non è sempre una scelta ottimale. Meglio sarebbe invece aiutarla a trasformarsi.

 

Ci sono modelli ai quali ispirarsi, Paesi che sanno affrontare meglio di noi i problemi che la globalizzazione comporta nel mercato del lavoro?

Potrei fare due esempi fra loro molto diversi. Uno è la Danimarca con il suo modello di “flexicurity” (sicurezza flessibile) che fornisce un sostegno efficace ai lavoratori in uscita da un certo ambito produttivo prima dell’entrata in quello successivo. Ciò avviene grazie all’erogazione di un reddito di sussistenza con il quale il disoccupato può trascorrere senza affanno il periodo in cui viene addestrato ad apprendere il mestiere futuro. L’altro sono gli Stati Uniti, che se hanno un tasso di disoccupazione così basso, intorno al 3%, non è certo per essersi chiusi al mondo esterno (quando lo hanno fatto durante la presidenza Trump le cose sono peggiorate). Al contrario gli Usa sono la dimostrazione che si può creare nuovi posti di lavoro senza tenere tutto congelato. Anche lì, come da noi, accade che certi distretti produttivi vadano in crisi e questo comporti la morte di alcune attività con i problemi sociali connessi. La differenza è che il problema non è permanente e viene superato grazie alla maggiore mobilità degli individui e al maggiore dinamismo delle imprese. Ho detto che il modello americano e quello scandinavo sono diversi, e infatti il secondo assicura sostegni ai lavoratori nelle fasi di transizione che non vengono garantiti in America. Ma in comune hanno la possibilità che chi resta senza lavoro trovi una nuova occupazione in tempi ragionevolmente brevi.

 

Semplificando il ragionamento si può dire che esistano una globalizzazione buona ed una cattiva?

Senza spingersi sino ai casi criminali offerti dal trattamento disumano dei lavoratori o dalla distruzione di risorse naturali, può essere cattiva la globalizzazione di chi de-localizza la sua attività unicamente per fruire di manodopera sottopagata. Ma è cattiva anche per l’imprenditore stesso, perché se quello è veramente l’unico motivo della sua scelta, non andrà lontano. Nel breve termine operare in un Paese senza regole che tutelino le persone e l’ambiente può garantire dei risparmi sui costi. Ma sono assai rari i casi di aziende che agendo così abbiano conseguito un successo di lunga durata. Bisogna considerare poi che in questi casi l’effetto negativo riguarda soprattutto il paese meta della delocalizzazione, mentre paradossalmente il paese di origine potrebbe esserne addirittura avvantaggiato, perché perde produzioni che non sono caratterizzate da un più alto valore aggiunto. Direi comunque che si fa fatica a trovare esempi di globalizzazione davvero negativa.

 

All’inizio di questa intervista lei accennava alla possibilità di documentare empiricamente i vantaggi insiti nella globalizzazione. A cosa si riferiva?

Ad esempio al fatto che la stragrande maggioranza dei Paesi arretrati coinvolti nei processi di internazionalizzazione economica, ne hanno tratto un calo nelle percentuali di popolazione viventi al di sotto della soglia di povertà. Lo si può notare sia in Asia che in America Latina, in Europa orientale come in Africa, prendendo in esame Paesi che dopo lunghi periodi di isolamento e chiusura si sono aperti ai rapporti commerciali con il mondo sviluppato. Andando nello specifico certamente si trovano situazioni diverse, popoli che hanno beneficiato maggiormente della globalizzazione e altri che ne hanno maggiormente sofferto. Ma prendendo le cose nel loro complesso, si è verificato quell’innalzamento dei livelli minimi di sussistenza di cui dicevo.

 

Un aspetto dell’internazionalizzazione economica sono i flussi migratori. Di grande attualità è la polemica sugli stranieri immigrati. Si sente dire di tutto. Per alcuni tolgono il posto agli italiani, per altri invece sono indispensabili per svolgere mansioni che i nostri concittadini rifiutano. Gli imprenditori dicono che ce n’è un grande bisogno. I politici sostengono a volte la necessità di facilitare l’ingresso per vie legali, ma le misure in atto sembrano inadeguate. Qual è il suo giudizio e come dovrebbe essere affrontato il problema?

Dal punto di vista dei principi economici fondamentali l’immigrazione è un fenomeno positivo tanto quanto lo è qualsiasi scambio che consenta un migliore utilizzo delle risorse, siano esse persone o merci. Certo l’immigrazione può creare problemi sociali, e deve essere gestita con razionalità. Ma la storia ci insegna che sul piano strettamente economico i flussi migratori hanno sempre rappresentato un vantaggio sia per i Paesi di partenza che per quelli di arrivo, alleggerendo la disoccupazione nei primi e favorendo lo sviluppo nei secondi. Gli ostacoli all’immigrazione sono anti-economici così come lo sono i dazi sull’importazione delle merci. Se gli stranieri vengono in Italia o in un altro Paese europeo è perché ci sono opportunità di lavoro. Se in Italia ci fosse la piena occupazione non verrebbero. Ma non ha senso dire che sottraggano impieghi che altrimenti sarebbero svolti dai nostri concittadini.

 

Vorrei farle un esempio di globalizzazione giuridica intra-europea: la Commissione UE ha avviato un procedimento di infrazione contro 10 paesi membri, Italia compresa, per non avere recepito correttamente la direttiva comunitaria sul lavoro stagionale. Nel mirino è l’abuso dei contratti a termine, proprio nel momento in cui questo strumento viene rilanciato dal governo italiano. Cosa ne pensa?

I Paesi membri dell’Unione si sono accordati esattamente trenta anni fa, nel 1993, per avere un mercato unico. Ciò significa condividere le stesse regole del gioco sia per quanto riguarda la concorrenza fra le imprese sia in rapporto al funzionamento del mercato del lavoro. Avere un mercato unico integrato, che garantisce i liberi spostamenti dei lavoratori e delle imprese, consente di usare meglio le risorse disponibili, diventare più efficienti, essere più competitivi rispetto ai Paesi extra-europei. All’epoca, nel 1993, questo discorso poteva riguardare gli Stati Uniti così come la Cina che cominciava a farsi sempre più presente e intraprendente sui mercati internazionali. Oltre a rendere l’Europa più forte nei confronti dell’esterno, quelle norme offrivano uno scudo contro la concorrenza sleale all’interno dell’Unione. Le direttive della Commissione e le sanzioni contro chi le violi mirano dunque non solo a vietare comportamenti lesivi dei diritti dei lavoratori ma anche a promuovere condizioni di competizione commerciale paritarie fra gli operatori europei.

 

Restando sul tema dei rapporti fra Paesi della UE, colpisce la differenza dei livelli retributivi italiani rispetto a realtà che consideriamo abbastanza vicine a noi per tenore di vita e modelli di sviluppo. Le nostre paghe sono molto più basse rispetto a quelle dei tedeschi o dei francesi. In Germania recentemente i sindacati hanno concordato con gli imprenditori aumenti pari al 5%. In Italia ancora una volta si punta invece sul taglio del cuneo fiscale, il ché significa trasferire il costo dei miglioramenti salariali a carico della collettività anziché dei datori di lavoro. Come valuta la questione nel suo complesso?

Vero, la differenza fra gli stipendi di un lavoratore italiano e del suo corrispettivo tedesco o francese è spesso notevole. Voglio affrontare la questione applicando i principi della dottrina economica. Cos’è il salario? E’ la retribuzione del contributo che il lavoratore dà all’attività produttiva, e deve quindi muoversi assieme alla produttività. Ma come cresce la produttività? In due modi. In primo luogo attraverso gli investimenti. Ora l’abilità media degli esseri umani è più o meno la stessa ovunque. Se il mio lavoro è più produttivo è perché nell’azienda in cui opero ci sono stati investimenti in tecnologia, macchinari, equipaggiamenti, ricerca, formazione. Questo fa la differenza fra Paesi avanzati e Paesi emergenti. Ma all’interno del mondo sviluppato ciò fa la differenza anche fra quelli che investono di più o di meno nelle voci che ho menzionato, e per venire al caso nostro, fra Germania ed Italia. Gli investimenti in Italia sono strutturalmente bassi e la nostra produttività negli ultimi 20 anni è rimasta quasi al palo! Ecco perché i salari da noi sono fermi: pochi investimenti. La responsabilità grava sia sugli imprenditori che non li fanno, sia sui governi che non li favoriscono. Ora c’è la gigantesca occasione offerta dai fondi europei per il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza). Sarebbe un disastro non saperla cogliere.

 

Rispondendo alla precedente domanda, Lei ha accennato a un secondo modo, oltre agli investimenti, per stimolare la produttività. Quale?

Uno dei problemi italiani è l’ostinazione nel costringere gli “zombi” alla sopravvivenza, senza tenere conto di questa semplice realtà: la produttività cresce se si concentra l’attività industriale in certi campi anziché in altri, scegliendo i settori più moderni e abbandonando quelli obsoleti che hanno maggiori costi e procurano meno profitti. Se l’occupazione cresce nei primi e cala nei secondi, sale la produttività media, e in presenza di un aumento produttivo ci si aspetta un incremento retributivo. Bisogna aggiungere a onor del vero che non ci sono automatismi assoluti. E quindi per evitare che un imprenditore trattenga i maggiori profitti tutti per sé, devono entrare in azione meccanismi istituzionali che stimolino il trasferimento della più alta produttività anche sugli stipendi.



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