Le discriminazioni di genere nel mondo del lavoro non sono solo ingiuste ma anche dannose per l’economia. Lo spiega in questa intervista la professoressa Azzurra Rinaldi, docente di Economia Politica presso l’università Unitelma Sapienza di Roma, e direttrice dalla School of Gender Economics nella stessa Università. Rinaldi critica molte misure volte a sostenere l’occupazione femminile, perché non tengono conto della realtà pratica, e sottolinea come siano più avanti dell’Italia da questo punto di vista non solo i Paesi nordici ma anche la Spagna.
Recentemente lei ha affermato che “discriminare le donne sul lavoro fa perdere ogni anno in Europa oltre 370 miliardi di euro”. Una frase forte, professoressa Rinaldi. Vuole spiegare meglio in che modo ciò avvenga?
Mi sono limitata a citare un dato divulgato dalla Commissione Europea, che calcola i costi derivanti dalle misure compensative per l’uscita dal mondo del lavoro, dalla gestione dei casi di violenza di genere, e da altri fattori ancora. Sommati alle perdite provocate dalla mancata produzione di reddito, quei dati portano alla cifra che lei ha citato nella domanda. Aggiungo che se allarghiamo lo sguardo fuori d’Europa, a livello globale si arriva a una cifra ancora più grande e davvero enorme: 16 mila miliardi di dollari. Lo si ricava da una rilevazione dell’ “Axa Research Lab on Gender Equality” dell’Università Bocconi.
E in Italia in particolare che situazione abbiamo?
Per il nostro Paese non disponiamo di dati relativi ai costi della discriminazione di genere, ma solo quelli sul mancato guadagno. Eurostat, osservando che 14 punti percentuali ci separano in negativo dalla media europea della disoccupazione femminile, sostiene che l’azzeramento di questo gap comporterebbe un incremento del Pil (Prodotto Interno Lordo) pari al 7%.
La discriminazione uomo-donna in campo economico ha vari aspetti. Uno di questi riguarda la retribuzione. Che dimensioni ha il fenomeno?
Ci sono dati molto recenti dell’Ocse rispetto all’occupazione femminile nel nostro Paese, che risulta essere tuttora, e ormai da lungo tempo, la più bassa in Europa. Per quanto riguarda la popolazione giovanile sino ai 34 anni, spicca il dato sulle italiane laureate, che a parità di età e di titolo di studio guadagnano solo il 58% rispetto ai corrispettivi maschi. Purtroppo è una tendenza in peggioramento, perché prima della pandemia la percentuale era il 73%. Un dato tutt’altro che brillante ma certamente migliore dell’attuale. La disparità retributiva si ripercuote sui trattamenti pensionistici dove il distacco fra donne e uomini è marcatissimo: le une ricevono il 36% in meno rispetto agli altri. Posso menzionarle anche il “Rapporto sulle libere professioni in Italia” elaborato da Confprofessioni e fondato su dati del 2021, secondo cui in Italia un ingegnere guadagna il doppio di un’ingegnera, e un avvocato più del doppio di un’avvocata. Uno potrebbe chiedersi come ciò possa accadere, visto che sono ambienti lavorativi in cui si opera in base a tariffari specifici di categoria. La radice della distorsione secondo me è di tipo culturale. Gli incarichi più delicati e remunerativi vengono affidati al professionista uomo perché si presume sia più bravo. In ambito forense ad esempio, se cerchi assistenza in una causa complessa e costosa ti rivolgi all’avvocato, mentre all’avvocata ricorri per l’amministrazione del condominio. Un esempio banale, ma la realtà non è molto lontana da questa semplificazione.
In una ricerca effettuata fra i dipendenti statali l’Osservatorio dell’Inps ha scoperto recentemente che in quell’ambito lavorativo gli uomini guadagnano 8mila euro all’anno in più rispetto alle donne. Più in generale secondo dati della Banca Centrale in Italia il gap salariale uomo-donna è di 24 punti percentuali. Com’è possibile che nei fatti si verifichino differenze di questo tipo che sicuramente non possono avere una base legale?
Innanzitutto dobbiamo tenere presente che non tutte le aziende applicano i contratti collettivi di categoria. La forbice è più ampia, laddove le norme consentono una più estesa incidenza delle componenti retributive variabili, ad esempio i benefit accessori. Nel settore pubblico il peso delle componenti variabili rispetto a quelle fisse è minore, mentre nel privato a volte si può giocare sui benefit con maggiore spazio di manovra. Detto ciò, la domanda è: perché questa autonomia di scelta viene utilizzata frequentemente per contenere la retribuzione delle donne, anziché per premiare il merito, il ché significherebbe molto spesso riconoscere il valore del capitale umano femminile? Le statistiche di Almalaurea mostrano come le donne si laureino prima e con voti più alti rispetto agli universitari maschi. Un sistema economico efficiente dovrebbe valorizzare le capacità dei singoli.
A parte la disparità di stipendi, la discriminazione di genere passa attraverso altre modalità. Una di queste è la difficoltà di mantenere il posto di lavoro in caso di gravidanza o per dedicarsi alla cura delle persone (bambini, anziani, malati). Vuole illustrare la situazione italiana a questo riguardo e le cause?
Questo è un tasto particolarmente dolente. La normativa vigente offre 5 mesi di congedo retribuito al 100% per la maternità, e solo 10 giorni per la paternità. Spesso gli uomini neanche ne usufruiscono, quasi fosse un’onta starsene a casa per accudire il neonato e costruire sin dal principio un rapporto con i propri figli. Per l’uomo che si cura dei bambini la lingua italiana ha coniato un termine che non ha l’equivalente in altre lingue ed ha una connotazione spregiativa: “mammo”. Questo per dire quanto incidano i fattori culturali nella realtà pratica della situazione femminile. In Finlandia, in Norvegia, e più recentemente anche in Spagna i periodi di congedo per maternità e paternità coincidono. Laddove la cura dei figli è condivisa da entrambi i genitori, si hanno riflessi positivi sul Pil, sull’efficienza del sistema economico, sulla crescita demografica. I Paesi più ricchi sono quelli dove le donne lavorano, e dove le donne lavorano il tasso di natalità è più alto, perché con due stipendi una coppia può permettersi di mettere al mondo più figli. Per quanto riguarda la cura dei minori, degli anziani, dei disabili, l’Oil (Organizzazione Internazionale del Lavoro) rivela che in Italia il 74% di queste attività, quando non retribuite, sono svolte da donne. E secondo l’Ispettorato del Lavoro sono donne in grande prevalenza (anche qui il 74%) coloro che abbandonano il lavoro per dedicarsi alla cura delle persone, richiedendo dimissioni volontarie che pure di volontario hanno ben poco.
Come giudica le misure a sostegno dell’occupazione femminile prese dai vari governi negli ultimi tempi?
Faccio qualche esempio. In Italia con la cosiddetta Naspi una madre può tirarsi fuori dal mercato del lavoro per un biennio e ricevere un’indennità. Il problema è che ciò non prelude al rientro in azienda al termine del periodo. In sostanza soldi pubblici vengono spesi per estromettere dal mercato del lavoro una donna che abbia avuto un figlio. Sarebbe meglio usare almeno una parte di quel denaro per iniziative che consentano alle madri di lavorare. Ad esempio spenderli per costruire e far funzionare un maggior numero di asili nido. Più in generale direi che la logica di molte misure è distante dalla vita reale delle donne. Grazie al PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) lo Stato ha destinato somme considerevoli alla costruzione di nuovi asili nido, ma il denaro per assumere il personale che operi all’interno devono tirarlo fuori i Comuni, molti dei quali ne sono privi. Inoltre molti Comuni hanno avuto difficoltà o hanno addirittura rinunciato ad utilizzare i finanziamenti del PNRR perché non dispongono di personale qualificato in grado di gestirli. Molte aree del sud o dell’interno non possono usufruire dei vantaggi offerti dal PNRR. Prendiamo poi l’incentivo chiamato “Bonus Mamma”. Ne beneficiano le madri che svolgano un lavoro dipendente, a tempo indeterminato, ed abbiano almeno due figli nella misura provvisoria per l’anno in corso e almeno tre figli fino al 2026. Sono talmente tante le limitazioni poste, che a riceverlo è solo il 6% delle madri che lavorano. Devo dire che se dal precedente premier Draghi non mi aspettavo una particolare sensibilità alle problematiche femminili, mi attendevo invece dall’attuale presidente del Consiglio Meloni, in quanto donna, un atteggiamento che andasse al di là delle dichiarazioni retoriche.
Lei ha detto una volta che “c’è bisogno di un’economia femminista: l’indipendenza delle donne passa dai soldi”. Detto così sembra uno slogan. Vuole elaborare questo concetto in maniera concreta sgombrando il campo dall’apparenza ideologica?
Molti credono che il femminismo sia l’opposto del maschilismo. Così non è. Il maschilista predica la superiorità di un genere sull’altro. La femminista chiede equità. Venendo ai numeri, l’OCSE afferma che il 22% delle italiane sono economicamente dipendenti dai partner. Anche quelle che lavorano delegano spesso la gestione degli affari familiari al partner. La dipendenza economica è uno dei primi fattori che impediscono alla donna di sottrarsi a una situazione di violenza domestica. Se non hai soldi o se non sai come amministrarli, la tua libertà d’azione è compromessa. Risulta che solo il 58% delle italiane abbia un conto corrente intestato unicamente a se stessa.
Per alcuni le quote rosa rappresentano un rimedio alla discriminazione sessuale, per altri sono la negazione della meritocrazia. Lei che opinione ha?
Poiché secondo molti studi le donne in media sono più brave degli uomini, l’esistenza delle quote di genere è lo specchio di un sistema che discrimina a seconda dei sessi. Possiamo definirlo uno strumento atto ad accelerare la transizione verso la parità. La normativa attuale prevede che nei Consigli di Amministrazione delle società quotate in borsa, almeno il 30% dei posti sia allocato alle donne. Da quando è entrata in vigore non si è mai andati molto sopra quella soglia, anche se quell’obbligo minimo avrebbe dovuto essere solo la molla per arrivare nei fatti al 50%. Quando qualcuno dice che applicando le quote non si tiene conto del merito, mi viene da pensare quanti uomini inadatti al ruolo si trovano ai massimi livelli delle istituzioni e delle imprese. Mi viene anche da dire, mi consenta la battuta, che si sarà raggiunta la parità di genere quando ai vertici avremo altrettante donne incompetenti quanti ne abbiamo di sesso maschile.