Si fa un gran parlare di iniziative a favore dell’occupazione giovanile, ma i dati della ricerca empirica sono spesso poco incoraggianti. L’INAPP (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) ha studiato i risultati ottenuti con l’applicazione di Garanzia Giovani, un programma che si avvale di finanziamenti per la maggior parte provenienti dalla Unione Europea, destinati ai Paesi con un alto tasso di disoccupazione giovanile, fra cui l’Italia. Il programma, nato nel 2014 e tuttora in vigore, prevede l’erogazione di fondi pari a 2,7 miliardi complessivi di euro, dei quali oltre l’ottanta per cento sono europei.
I ricercatori Andrea Ricci e Irene Brunetti hanno appurato che in 30mila aziende da loro esaminate l’occupazione delle persone di età inferiore a 29 anni non era aumentata, a prescindere dall’avere o meno utilizzato i soldi di Garanzia Giovani. In alcuni casi per usufruire degli incentivi le imprese effettuavano sì nuove assunzioni, ma contemporaneamente si liberavano di un numero equivalente di ragazzi precedentemente assunti. Inoltre, secondo Ricci, spesso “gli incentivi stimolano le imprese a competere abbassando i costi, e questo non favorisce gli investimenti per l’innovazione”. In sostanza “Garanzia Giovani” avrebbe contribuito in molti casi a un calo di produttività, anche perché evidentemente i neo-assunti erano meno formati o non venivano adeguatamente formati. Secondo gli studiosi dell’INAPP sarebbe preferibile che gli incentivi riguardassero prevalentemente contratti a tempo indeterminato. Incentivare assunzioni a termine avrebbe poco senso trattandosi di atti che le aziende compirebbero comunque anche in assenza di quel tipo di stimoli.
Sarà interessante vedere che risultati daranno i nuovi bonus, disponibili già dal primo settembre, che gli imprenditori potranno continuare a richiedere sino alla fine dell’anno prossimo. Sono utilizzabili per assumere minori di 35 anni e donne, o per creare nuovi posti di lavoro nelle cosiddette Zone Economiche Speciali (Zes) del Mezzogiorno. Per le categorie suddette sono previsti sgravi di durata biennale pari al 100% dei contributi previdenziali (esclusi quelli per l’Inail). Per quanto riguarda i giovani in particolare l’agevolazione si rivolge a imprenditori che assumano individui mai prima occupati, e con un rapporto di lavoro subordinato e a tempo indeterminato. Il bonus varia da 500 a 650 euro mensili a seconda delle regioni ed esclude apprendisti, Colf, e baby sitter. Un vincolo posto agli imprenditori è quello di non avere effettuato licenziamenti nei sei mesi precedenti e di non farne nei sei mesi seguenti.
Un’altra agevolazione già entrata in vigore il primo luglio scorso ha per oggetto gli individui di età inferiore a 35 anni che vogliano lanciarsi nell’imprenditoria. Il neo-imprenditore potrà fruire di un sussidio per assumere lavoratori con contratti a tempo indeterminato, che anche in questo caso consiste in un esonero fiscale pari al 100% dei contributi previdenziali, con esclusione di quelli riservati all’Inail. La differenza è che la somma è più alta, potendo arrivare sino ad 800 euro mensili. Inoltre la durata è maggiore: tre anni anziché due.
Questi sono programmi per il futuro. Il presente offre però un quadro poco roseo. Gli aumenti occupazionali che si sono verificati nell’ultimo anno e mezzo hanno riguardato tutte le fasce di età tranne quella compresa fra 25 e 34 anni. Per costoro è accaduto l’esatto contrario. Secondo l’stat la disoccupazione giovanile continua ad aggirarsi intorno al 21%.
Il rapporto fra giovani e lavoro è un problema su cui non mancano le rilevazioni statistiche e i tentativi di capirne cause ed aspetti. Una delle questioni più drammatiche è l’alto numero di coloro che né lavorano né studiano né si dedicano alla propria formazione professionale. Stiamo parlando dei cosiddetti “Neet”. Secondo Eurostat nel 2023 apparteneva a questa categoria oltre l’11% degli europei in età compresa fra 15 e 29 anni. Naturalmente le percentuali variano molto da paese a paese. Si va dal 4,8% in Olanda al 19,3% in Romania. Il target fissato dall’Unione Europea è di scendere sotto un valore medio del 9% entro il 2030. Alcuni Paesi hanno già centrato l’obiettivo. Fra questi, oltre alla già citata Olanda, ci sono altre nazioni del nord Europa come Svezia, Danimarca, Irlanda, Germania e Lussemburgo, ma anche alcuni Stati meridionali: da Malta alla Slovenia al Portogallo. L’Italia invece fa compagnia alla Grecia con il suo 16% di “Neet”, ed è superata in questa classifica a rovescio solo dal 19% romeno.
Non tutti gli indicatori inducono però al pessimismo. Se durante gli anni della pandemia il numero dei giovani inattivi sia per quanto riguarda il lavoro sia per quanto concerne studio e formazione professionale era cresciuto rispetto al 2019, a partire dal 2021 si è assistito in generale ad una inversione di tendenza.
Disaggregando i dati in relazione al titolo di studio, la media europea dei giovani NEET risulta più alta rispetto all’11% (cioè alla media generale calcolata senza tenere conto del livello di istruzione) fra coloro che hanno un titolo di studio basso o medio, mentre cala sotto l’8% fra i laureati. Purtroppo però per quanto riguarda il nostro Paese le percentuali non sono brillanti in nessuno dei tre livelli scolastici. Quasi il 15% per chi ha frequentato al massimo la scuola dell’obbligo (peggio di noi solo Spagna, Malta, Bulgaria, Romani). Addirittura il 17% per chi ha conseguito un diploma (siamo i peggiori assieme a Grecia e Lituania). Va un po’ meglio per i laureati con il 12,5%, che è comunque ben lontano dal record svedese: solo il 3,5%.
Una differenza in negativo fra il mondo dei giovani e quello degli anziani si ritrova anche sul piano retributivo. Secondo dati diffusi dal centro studi dell’Inps fra il 1985 e il 2018 il fossato fra il reddito degli under-35 e degli over-55 si è allargato notevolmente, dal 120% al 140%.
Riflettendo sull’insieme di questi fenomeni Paolo Boccardelli, professore di Strategia d’Impresa e direttore del centro “Strategic Change” presso l’università Luiss di Roma, cerca di vedere anche i lati positivi. Oggi, secondo Boccardelli, i giovani sono poco inclini a condividere l’atteggiamento delle passate generazioni rispetto al posto fisso o alla permanenza nella stessa azienda vita natural durante. Inoltre “sono attratti da imprese che garantiscano un migliore welfare interno e orari più flessibili”, così da poter godere di un rapporto più equilibrato fra lavoro, vita privata, socialità. Inoltre i giovani oggi sanno che “non avranno la stessa mansione per sempre perché il loro lavoro e il modo di lavorare cambierà”. Da questo deriva l’aspirazione diffusa a percorsi di formazione interna che consentano di incrementare il proprio livello di competenze.