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Aumentano i poveri in Italia e molti hanno un lavoro. Ne parla l’esperto Cristiano Gori

MARTEDÌ 08 APRILE 2025 | Lascia un commento
Foto Aumentano i poveri in Italia e molti hanno un lavoro. Ne parla l’esperto Cristiano Gori
Scritto da Gabriel Bertinetto

Fino al 2008-2010 la povertà era per lo più associata alla disoccupazione. Le cose sono cambiate. Oggi la metà dei poveri italiani vive in famiglie nelle quali qualcuno un lavoro ce l’ha. Vengono meno anche alcune caratteristiche storiche nella distribuzione della povertà: benché percentualmente il sud sia tuttora più povero rispetto al nord, in termini assoluti oggi è nelle regioni settentrionali che si trova il maggior numero di persone indigenti. Sono queste alcune delle considerazioni che nella seguente intervista svolge il prof. Cristiano Gori, docente di Politiche Sociali all’Università di Trento, uno dei massimi esperti in materia, autore di libri come “Combattere la povertà”, edito da Laterza nel 2020. 

 

Il recente rapporto Istat sulle “Condizioni di vita e reddito delle famiglie negli anni 2023-2024” rivela che in Italia 13 milioni e mezzo di persone sono a rischio di povertà o esclusione sociale. Di queste 2 milioni e 710mila versano in situazioni di “Grave privazione materiale e sociale”. A lei, prof. Gori, che da anni studia il fenomeno, un commento su questi dati drammatici.

In realtà le cifre che lei trae dal rapporto Istat fotografano piuttosto il fenomeno della disuguaglianza. Ma i dati che davvero interessano per avere un’immagine chiara del problema sono quelli che quantificano la povertà assoluta: In Italia i poveri sono 5 milioni e 600 mila. Dopo la grande crisi finanziaria del 2008 la povertà in Italia non ha fatto che crescere, e per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale siamo alle prese con un trend pluriennale coerente rispetto al quale non si manifesta la prospettiva di una eventuale retromarcia. In passato già c’erano state fasi in cui la miseria era aumentata, ad esempio negli anni settanta, ma poi si era verificata una contrazione. Adesso invece, da una quindicina di anni, l’incremento è stabile.

 

Chi sono i poveri oggi in Italia? Qual è l’identikit di una persona che vive in condizioni di miseria?

Ecco, questo è un altro elemento importante. E’ cambiato il profilo della povertà, che è sempre più trasversale. Essa si è confermata nei gruppi sociali in cui era fortemente presente in passato, ma ha per cosi dire sfondato anche in altri gruppi. L’idea corrente è che la povertà sia un fenomeno tipico del sud Italia e che il nord ne sia ampiamente immune. Non è più così. Certo ha continuato a crescere nel meridione, e l’incidenza, cioè la percentuale dei poveri sul totale della popolazione, è tuttora maggiore lì piuttosto che al nord. Ma in termini assoluti la maggioranza dei poveri oggi vive nelle regioni settentrionali. Nel giro di 15 anni al nord si è passati da una percentuale di poveri pari all’1% all’attuale 6%. Quello che era un problema marginale riguardante prevalentemente i senza-dimora è diventato un fenomeno a larga diffusione sociale. Poi c’è un altro aspetto che distingue la povertà degli ultimi quindici anni da quella dell’epoca precedente, ed è il rapporto con la condizione lavorativa. Fino al 2008-2010 la povertà era per lo più associata alla disoccupazione. Se avevi un lavoro, eri salvo. Le cose sono cambiate. Oggi la metà dei poveri vive in famiglie nelle quali qualcuno un lavoro ce l’ha. Infine, un tempo (teniamo sempre presente come spartiacque cronologico gli anni del grande sconquasso finanziario internazionale) il numero dei figli faceva la differenza nel passaggio ad una condizione di indigenza. Per una famiglia che avesse sino a due figli le probabilità di trovarsi in povertà rientravano nella media generale, e solo a partire dal terzo figlio le statistiche rilevavano il salto verso una più facile caduta in miseria. Oggi invece quel salto avviene prima. La maggioranza delle famiglie povere oggi sono quelle con uno o due figli. 

 

Quali sono le categorie meno esposte al rischio della povertà?

In questa fase storica l’unica fascia d’età in cui non si registra un aumento è quella degli over-65. In parte perché molti di loro beneficiano di pensioni di buon livello, maturate quando il sistema previdenziale era più “generoso”, e in parte perché sono riusciti ad accumulare risorse e risparmi nei periodi di sviluppo economico anteriori al 2008. L’eccezione alla regola suddetta si produce nelle famiglie in cui ci sono anziani non autosufficienti, ma questo aprirebbe un altro capitolo di analisi. L’incidenza rispetto alle fasce d’età, cioè la percentuale di poveri in ciascun singolo comparto anagrafico, vede al primo posto quella da zero a 17 anni, e diminuisce progressivamente sino al gruppo degli ultra-sessantacinquenni. Però c’è da notare una cosa. Si sente parlare tantissimo di minorenni che vivono in condizioni di indigenza. Ma in Italia i poveri sono perlopiù persone di età compresa fra i 50 e i 64 anni, anche a causa dell’invecchiamento della popolazione. In un paese in cui in cui si fanno pochi figli, i cinquantenni risultano più numerosi dei ventenni.  

 

Per quale motivo questa fascia d’età è maggiormente esposta al rischio povertà? 

Le ragioni sono diverse. Intanto bisogna dire che rispetto al passato è molto più alto il rischio di perdere il lavoro. Non solo, pesa sempre di più la perdita di potere d’acquisto dei salari. Dalla metà degli anni novanta e in particolare dal varo della legge Treu il mercato del lavoro è sempre più de-regolamentato. In precedenza era ben radicato nel sistema economico il modello classico dell’occupazione pressoché garantita per i dipendenti della grande industria o delle imprese statali. Più si va avanti con l’età, più sale il numero di coloro che non godono più di quel tipo di protezioni e aumenta la quantità di individui provvisti di lavori precari o di bassa qualità. Una situazione che vediamo condensata nel titolo di un libro scritto da Raffaele Brancati e Carlo Carboni: “Verso la piena sottoccupazione”.

 

Quali sono le misure adatte a contrastare la povertà?

Innanzitutto occorre premettere che le migliori politiche contro la povertà, sono quelle che mirano a prevenirla. Quelle attuate sinora in Italia mirano piuttosto a fornire certi livelli minimi di reddito, sotto i quali si considera che le persone vivano in stato di indigenza. Il problema principale però è quello di evitare che un individuo cada in povertà. E’ statisticamente provato infatti come ogni mese che si passa in quelle condizioni riduca le probabilità di uscirne. Evidentemente ciò aprirebbe la discussione sul livello troppo baso dei salari italiani e sul motivo per cui lo sono, gli uni tirando in ballo la bassa produttività del lavoro, gli altri la scarsa propensione degli imprenditori all’innovazione. Ma ci allontaneremmo dal tema specifico di questa intervista.

 

Vuole parlare delle politiche sinora attuate in Italia per combattere la povertà?

In primo luogo è opportuno considerare che l’Italia è arrivata per ultima in Europa, e solo nel 2017, a dotarsi di una politica nazionale contro la povertà. La base per costruire un piano anti-povertà consiste nel fissare una soglia minima di reddito, al di sotto della quale si ha diritto a ricevere un sostegno pubblico. In Italia fino a poco meno di dieci anni fa non c’era nulla del genere. Il primo tentativo c’è stato nel 2017 con il reddito di inclusione varato dal governo Renzi. Due anni dopo il governo Conte introdusse il reddito di cittadinanza. Ora dal 2024 abbiamo l’assegno di inclusione. L’approccio del 2017 fu stimolato da una campagna promossa dall’”Alleanza contro la povertà” di cui all’epoca ero il coordinatore scientifico. In sostanza vennero stabiliti modi e criteri per fornire una prestazione economica a vantaggio di chi si trovava sotto un certo livello di reddito e consentirgli di campare meglio. I soldi immessi nella gestione di questa politica non erano però sufficienti. La stessa logica presiedette al varo del Reddito di Cittadinanza, con un assai più consistente investimento di denaro. Le differenze fra il Reddito di Inclusione e il Reddito di Cittadinanza erano due. Il primo era ben disegnato e poco finanziato. Il secondo era molto finanziato ma mal disegnato e ricco di grossi errori tecnici. Per quanto riguarda il Reddito di Cittadinanza c’è da aggiungere che solo una forza politica nuova ed esterna ai consolidati processi decisionali, come era quella che lo lanciò, poteva impiegarvi una tale massa di denaro. E proprio perché in gioco c’erano così tante risorse divenne un tema politico assai controverso. L’attuale esecutivo ha scelto una via diversa sia dal Reddito di Inclusione che dal Reddito di Cittadinanza, perché ha escluso il principio dell’universalità proprio dell’uno e dell’altro. L’assegno di inclusione infatti non spetta a tutti coloro che versano in condizioni di povertà. Ne sono esclusi coloro che pur essendo poveri non hanno un figlio minorenne. Anziché guardare alle condizioni individuali si è scelto di prendere in considerazione la situazione familiare. Così l’Italia è oggi l’unico Paese europeo privo di misure a sostegno di tutti i poveri.



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