La disoccupazione giovanile in Italia dipende solo in minor parte da livelli retributivi bassi che non incentiverebbero la ricerca del lavoro. Anzi, secondo Claudio Negro, studioso della Fondazione Kuliscioff e dell’istituto Itinerari Previdenziali, le paghe degli italiani che hanno meno di 30 anni sono più o meno allo stesso livello, o di poco sotto, rispetto a quelle dei coetanei tedeschi, olandesi, francesi e alla media di Eurolandia.
La causa principale, spiega in questa intervista il dr. Negro, è un sistema inadeguato di formazione professionale e di servizi per il lavoro. Le cifre sulla disoccupazione contengono anche gli impieghi invisibili, quelli che le statistiche faticano a rilevare perché retribuiti in nero.
In un saggio pubblicato recentemente dalla Fondazione Kuliscioff, lei dr. Claudio Negro, indica nelle carenze della formazione professionale e dei servizi per il lavoro la causa principale della poca occupazionale giovanile in Italia. Vuole spiegarci perché?
Devo fare una premessa. Le cifre che compaiono nelle statistiche si riferiscono a una definizione del disoccupato come colui che cerca lavoro e non lo trova, e in Italia sono cifre elevate. Ma se sommiamo i “disoccupati” ai “non attivi”, cioè coloro che il lavoro nemmeno lo cercano, raggiungiamo livelli che sono addirittura enormi rispetto alle medie europee. Questo è particolarmente vero nelle fasce d’età più giovani. Il fatto è che nel nostro Paese ci troviamo di fronte ad un paradosso colossale. Le aziende hanno una grande fame di lavoro, eppure il lavoro scarseggia. Un’indagine di Excelsior, sistema informativo gestito da Unioncamere e ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro), rivela che quest’anno per il trimestre in corso le aziende italiane nel loro complesso avrebbero in programma un mezzo milione abbondante di nuove assunzioni. Di queste circa il 40% è rivolto ai giovani. Il problema è che, come l’esperienza passata dimostra, la domanda purtroppo non incontra l’offerta. I motivi sono tanti, ma uno è che i profili professionali richiesti sono introvabili, e questo anche a causa dei difetti del nostro sistema formativo.
Ci sono altre spiegazioni?
Sempre dai dati di Excelsior emerge un dato importante ed è l’elevato numero di coloro che non si candidano per svolgere un lavoro che sarebbe alla loro portata. Larghe fette di popolazione giovanile appaiono quasi rassegnate alla disoccupazione. Questo riguarda soprattutto quei ragazzi che anche in età da lavoro continuano ad abitare nella casa in cui sono cresciuti o comunque campano con il sostegno familiare. La possibilità di essere mantenuti grazie allo stipendio o alla pensione dei genitori o dei nonni rende il reperimento di un lavoro un’esigenza non impellente, anche se poi alla lunga ciò si risolve in un immiserimento delle condizioni di vita dei giovani e dei loro congiunti.
Cosa viene fatto e cosa invece dovrebbe essere fatto nel campo della formazione e dei servizi per il lavoro, al fine di rimediare a questa situazione?
Qualcosa viene fatto in realtà, a volte con buone intenzioni seppure con esiti insoddisfacenti. Penso al programma GOL della Regione Lombardia attraverso il quale un terzo dei partecipanti è stato collocato. Meglio che niente, ma non è un grande risultato. In generale manca uno sforzo adeguato nelle politiche attive per il lavoro, che vada oltre l’erogazione di somme più consistenti a favore dei Centri per l’Impiego. Spesso rispetto a questi Centri sono più efficienti le Agenzie private. Ma il problema principale per gli uni e per le altre è il livello inadeguato di formazione professionale di chi aspira a essere assunto. Per rimediare a questo difetto bisognerebbe partire in primo luogo dalla scuola, che al momento offre servizi di orientamento insufficienti sia rispetto alla scelta di una facoltà universitaria sia rispetto agli sbocchi professionali. Inoltre manca in Italia un corso di studi simile a quello degli Istituti Tecnici Superiori che in Germania sono un’eccellenza e costituiscono una valida alternativa all’Università. Fra l’ottanta e il novanta per cento dei frequentanti trovano subito lavoro appena conseguito il diploma. Ne beneficiano ogni anno centinaia di migliaia di ragazzi tedeschi.
Si sente spesso dire che i livelli retributivi dei giovani italiani sono inferiori a quelli dei loro connazionali di molti Paesi europei. Questo può essere un elemento che scoraggia la ricerca di un’occupazione?
In realtà i livelli sono più o meno gli stessi. Le vere cause della disoccupazione giovanile sono quelle di cui parlavo prima. Aggiungo che in Italia in materia di lavoro abbiamo una normativa che sul piano formale è adeguata. Il problema è che poi nella realtà molti non ne godono affatto, ed oltre alla disoccupazione abbondano il lavoro “nero” e il lavoro “grigio”. Il primo si svolge del tutto al di fuori di una cornice legale, il secondo vi rientra solo in apparenza. Sul lavoro nero ha svolto una ricerca il centro studi “Itinerari Previdenziali”, con il quale collaboro. Ne è uscita un’impressionante stima sul numero di persone che in Italia operano in quelle condizioni: addirittura tre milioni, vale a dire ben più del 10% degli occupati regolari. Non ci sono dati precisi, ma la gran parte di quei tre milioni appartengono alle fasce d’età più giovani.
Poi, diceva, c’è il lavoro “grigio”.
Appartengono a questa modalità di impiego buona parte degli stage e dei tirocini extra-curriculari. Assumi un giovane offrendogli per esempio trecento euro al mese, e la bassa retribuzione è motivata dal fatto che lo stai addestrando. Alla fine, se sei soddisfatto lo tieni, se no lo mandi via senza problemi. E’ un fenomeno tipicamente italiano. Questa modalità di impiego è quasi inesistente all’estero, per lo meno con le caratteristiche che si sono affermate da noi. Fino a 15-20 anni fa questo fenomeno riguardava essenzialmente le botteghe artigiane, poi si è esteso a molti campi come alternativa al Contratto di Apprendistato che molte aziende non gradiscono perché comporta una serie di vincoli maggiori rispetto agli stage. Un’altra variante di lavoro grigio è il lavoro dipendente camuffato da attività autonoma. Certe ditte in questo modo evitano i costi di una regolare assunzione. In Italia questo espediente è particolarmente diffuso, e spiega perché apparentemente siano così tanti i giovani con propensione imprenditoriale. I minori di 24 anni che lavorano in proprio, secondo dati del primo quadrimestre 2022, in Italia sono più di 99mila, molto più degli 85mila francesi e dei 75mila circa tedeschi. La grande diffusione del lavoro nero (che sfugge alle rilevazioni ufficiali) e di certe forme di lavoro grigio spiegano anch’esse almeno in parte perché siano così alte le cifre relative alla disoccupazione giovanile in Italia.