In Italia – sostiene Pietro Ichino nel suo ultimo libro, L’intelligenza del lavoro. Quando sono i lavoratori a scegliersi l’imprenditore (Rizzoli, 2020) – ci sono grandi “giacimenti occupazionali” che chiedono solo di essere valorizzati e che consentirebbero ai disoccupati di trovare un lavoro e agli occupati di cambiarlo, trovandone uno migliore. La globalizzazione consentirebbe ai lavoratori, se sapessero farlo, di attirare in casa propria gli imprenditori da ogni parte del mondo, quindi anche di scegliere i migliori. Ma perché tutto questo si realizzi occorrono un mercato del lavoro innervato da servizi efficienti, relazioni industriali nelle quali modelli sindacali diversi possano davvero competere tra loro. E soprattutto la crescita di un sindacato capace di guidare i lavoratori nella scelta dell’imprenditore e nella negoziazione della scommessa comune sul piano industriale innovativo. Piero Ichino insegna Diritto del Lavoro all’Università di Milano. E’ un ex-parlamentare, che ha manifestato spesso posizioni “eretiche”, da tecnico, rispetto ai politici.
Professor Ichino, da anni Lei studia i meccanismi del mercato del lavoro italiano e le sue storture, che indica come un’importante concausa dell’alto livello di disoccupazione. È un discorso complesso, ma dovendo indicarne alcune, quali sono le più importanti fra queste storture?
La principale è costituita dalla mancanza di alcuni servizi essenziali, soprattutto quello di orientamento scolastico e professionale, e dalla arretratezza di altri: la mediazione tra domanda e offerta è svolta ancora con strumenti e metodi rudimentali, senza un collegamento organico con servizi di formazione mirata agli sbocchi occupazionali effettivamente esistenti. E manca del tutto un monitoraggio permanente e capillare della qualità della formazione impartita, che per ogni corso dovrebbe fornire il grado di efficacia, che è dato dal tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi di chi vi ha partecipato.
Nel suo libro descrive quelli che Lei chiama “giacimenti occupazionali inutilizzati”, cioè centinaia di migliaia di posti di lavoro disponibili che rimangono scoperti. In altre parole domanda e offerta di lavoro non si incontrano. Può spiegarci meglio questo aspetto invero sorprendente del problema?
Nel novembre 2020, nell’occhio del ciclone della crisi economica più grave che si ricordi, Unioncamere e Anpal pubblicano questi dati: 763.770 assunzioni previste dalle imprese italiane nel trimestre ottobre-dicembre; difficoltà di reperimento delle persone cercate nel 32,5 per cento dei casi, cioè quasi in un caso ogni tre. E se si scorrono i dati disaggregati per settore e per profilo professionale si vede che le difficoltà, in maggiore o minore misura, si presentano dovunque e a tutti i livelli. Insomma, ci sarebbe lavoro per tutti coloro che lo cercano e non lo trovano, se solo fossimo capaci di attivare i percorsi di formazione e addestramento necessari per mettere in comunicazione domanda e offerta di lavoro.
Cosa c’è che non va nel nostro sistema della formazione professionale, e come potremmo farlo funzionare meglio?
Nel nostro mercato del lavoro, come dicevo prima, mancano i servizi di formazione mirata agli sbocchi effettivamente esistenti, quindi organizzata in collaborazione con le imprese interessate. E la cui qualità sia controllata rigorosamente, mediante un sistema di rilevazione sistematica del tasso di coerenza tra formazione impartita e sbocchi occupazionali effettivi.
Come lo si può realizzare?
Occorre istituire un’anagrafe della formazione professionale, analoga a quella scolastica già operante presso il Miur (Ministeri di Istruzione Università Ricerca), e incrociare i dati di questa anagrafe con quelli delle Comunicazioni obbligatorie al ministero del Lavoro, delle iscrizioni agli Albi ed elenchi professionali, delle liste dei disoccupati, eccetera. Qualche cosa di questo genere fa la Fondazione Agnelli con l’Osservatorio Eduscopio, e funziona benissimo, ma – per quel che ne so – lo fa solo per gli istituti scolastici di Piemonte e Lombardia. Questo sistema di monitoraggio della qualità della formazione professionale era espressamente previsto nel decreto attuativo del Jobs Act, n. 150/2015, articoli da 13 a 16; ma presupponeva un accentramento della competenza su questa materia, che il referendum sulla riforma costituzionale l’anno dopo ha bocciato.
Dunque è impossibile realizzarlo?
No: è possibile purché lo facciano le regioni, che restano le sole competenti per questa materia. Occorrerebbe che le più virtuose incominciassero a farlo: le altre poi sarebbero costrette a seguirle.
Nelle sue riflessioni ci si imbatte spesso in affermazioni che a prima vista appaiono paradossali. Lei sostiene che un mercato del lavoro sano è quello in cui non siano solamente gli imprenditori a scegliere i loro dipendenti o collaboratori, ma questi ultimi agiscano sempre più loro stessi nella veste di selezionatori nei confronti dei primi.
Nella maggior parte dei casi è già così: il lavoratore sceglie l’impresa dove lavorare quando limita la propria ricerca a una determinata zona, o a un determinato settore produttivo; talvolta anche ficcandosi in un vicolo cieco per difetto di informazione e orientamento. O quando si indirizza verso l’impresa artigiana piuttosto che verso quella di dimensioni medie o grandi; oppure decide di spostarsi dove trova delle imprese che gli offrono delle condizioni migliori. Il problema è che una parte della forza-lavoro, di fatto, non ha questa possibilità di scelta.
L’avvocato del diavolo bolla l’idea che tutta la forza lavoro sia messa in condizione di scegliere come utopistica. Non è così?
Se si considerano i giacimenti occupazionali inutilizzati di cui abbiamo parlato all’inizio ci si convince che non è un’utopia. Basterebbe attivare i servizi e i percorsi che consentono di accedere a quei posti. D’altra parte, questa visione del mercato del lavoro che propongo nel libro, come luogo dove sono – devono essere – anche i lavoratori a potersi scegliere l’imprenditore, è l’unica compatibile con l’articolo 4 della Costituzione. Dove si legge che la Repubblica deve fare tutto quanto necessario affinché ogni cittadino possa esercitare il proprio diritto al lavoro “secondo le proprie possibilità e la propria scelta”.
Esistono modelli stranieri di mercati del lavoro più efficienti? Sono riproducibili nella realtà italiana?
I Paesi del nord-Europa sono avanti rispetto a noi di due o tre decenni, su questo terreno. A noi basterebbe prendere il meglio delle loro esperienze per fare un balzo avanti poderoso. Se c’è un vantaggio, nell’essere un Paese arretrato, è proprio la possibilità di sfruttare le esperienze affinate dai Paesi più avanzati.
Il titolo del suo libro suona suggestivo ma anche un po’ misterioso: “L’intelligenza del lavoro”. Cos’è l’intelligenza del lavoro?
Uso questa espressione per indicare due “intelligenze” diverse. Quella cui è dedicata la prima parte del libro è l’intelligenza individuale: quella, cioè, che è indispensabile a ogni persona che vive del proprio lavoro per usare il mercato a proprio vantaggio: per questo occorre conoscerne i meccanismi (intelligere, appunto: leggere dentro) per usarli a proprio vantaggio. Per questo è necessario che il mercato stesso sia innervato dei servizi di informazione, formazione e assistenza alla mobilità geografica e professionale, di cui si è detto.
E l’“intelligenza collettiva”?
È il sindacato, che nell’era della globalizzazione deve saper valutare i piani industriali presentati da qualsiasi imprenditore, da qualsiasi longitudine o latitudine provenga; e, se la valutazione è positiva, anche per quel che riguarda l’affidabilità dell’imprenditore sul piano tecnico, come su quello dell’etica industriale, deve saper guidare i lavoratori nella scommessa comune con lui sul nuovo piano.
Lei critica spesso gli atteggiamenti di quei sindacati, che nello sforzo di difendere i lavoratori ostacolano processi di cambiamento e modernizzazione che favorirebbero i lavoratori medesimi. Può spiegare meglio questo punto?
Quella che propongo è la contrapposizione tra il prototipo di sindacato “alfa”, quello tradizionale, che si considera “tutt’altro rispetto all’impresa”, e quello del sindacato “omega”, che invece ha come proprio obiettivo, dove possibile, quello di guidare i lavoratori nella negoziazione della scommessa comune con l’imprenditore sul piano industriale innovativo. Ma non mi spingo a dire che quest’ultimo sia di per sé un sindacato più intelligente del primo: dipende dalla qualità dell’imprenditore che si ha di fronte. Ogni imprenditore ha il sindacato che si merita.
Cosa può dirci degli imprenditori e della scarsa propensione che buona parte di loro dimostra verso il rinnovamento o della tendenza a usare lo Stato come distributore di aiuti, tutore di privilegi, garante di quelle che a volte si chiamano rendite di posizione?
I nostri sindacati e la sinistra italiana hanno qualche buona ragione per criticare una parte non secondaria dell’imprenditoria italiana sotto questo profilo. Però cadono in una gravissima contraddizione con sé stessi quando, dopo aver mosso questa critica all’imprenditoria indigena, la proteggono con le unghie e coi denti contro la concorrenza, nel mercato del lavoro, dell’imprenditoria che viene da oltr’alpe, fanno la guerra alle multinazionali che vogliono investire sulle nostre aziende.
L’Italia, unico Paese al mondo per quel che consta, ha attuato un blocco dei licenziamenti che, quando cesserà a fine marzo, sarà durato un anno intero. Qual è la sua valutazione e quali le sue previsioni su ciò che accadrà quando il blocco cesserà?
La fine del blocco dei licenziamenti non produrrà un aumento della disoccupazione effettiva, ma solo di quella riconosciuta come tale nei dati statistici. Le persone che hanno perso il lavoro in questi mesi sono già disoccupate oggi, ma non sono contate come tali. Continueranno a ricevere un sostegno parziale del reddito, ma in forma di NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego) invece che di Cassa Integrazione. Il problema è che il blocco dei licenziamenti è stato un po’ come mettere queste persone in freezer: non si è fatto nulla per predisporre i servizi e i percorsi necessari per la transizione verso il nuovo lavoro. Siamo ancora al discorso iniziale: il difetto dei servizi, la nostra incapacità di implementare le politiche attive.
Nel libro c’è un capitolo in cui Lei affronta e smonta i timori che l’automazione crei necessariamente disoccupazione. Può spiegare in sintesi la sua tesi?
Il progresso tecnologico ha sempre fatto scomparire dei mestieri, ma ne ha sempre fatto nascere degli altri; e l’effetto complessivo non è mai stato quello di una riduzione dell’occupazione. Per esempio, negli ultimi quarant’anni – cioè da quando abbiamo serie statistiche comparabili – in Italia, nonostante l’accelerazione progressiva del ritmo dell’innovazione tecnologica, il numero degli occupati non solo non si è ridotto, ma è cresciuto da 19 a 23 milioni. Il problema è che non sta scritto da nessuna parte che il lavoro nuovo nasca là dove è morto il vecchio: il lavoro nuovo nasce dove il tessuto produttivo e il mercato del lavoro sono attrezzati per far crescere una offerta di manodopera adeguata alle nuove esigenze. Più in generale, direi che il problema non è “la morte del lavoro” di cui parlava Jeremy Rifkin venticinque anni or sono: il problema è come garantire l’assistenza e il sostegno di cui le persone hanno bisogno nella transizione dal vecchio lavoro al nuovo.