Al prof. Maurizio Del Conte, docente di Diritto del Lavoro all’Università Bocconi di Milano, chiediamo di fare luce su alcuni apparenti paradossi del mercato del lavoro italiano. Come si concilia ad esempio la crescita occupazionale degli ultimi due anni con la persistente elevata disoccupazione giovanile e con i dati assai poco soddisfacenti riguardanti il PIL (Prodotto Interno Lordo)? E per quale ragione, è sempre così alto il mismatch fra domanda e offerta di lavoro? Nel rispondere a queste e altre domande, Del Conte mette in risalto i difetti del sistema scolastico e formativo italiano e afferma che sembra ormai perduta l’occasione offerta dai fondi del PNRR per migliorare le politiche attive per il lavoro.
La situazione del mercato del lavoro italiano presenta alcuni aspetti apparentemente paradossali. Uno di questi è il contrasto stridente fra il discreto aumento dei livelli occupazionali complessivi registratosi negli ultimi due anni, e l’altissima percentuale di disoccupati nelle fasce d’età più giovani. Vuole ragionare su questo fenomeno prof. Del Conte?
Per essere precisi, il problema in Italia non sta tanto nella disoccupazione giovanile, che pure è elevata, ma nell’altissimo tasso di inattività. Il disoccupato è colui che cerca lavoro senza trovarlo, che è cosa ben diversa dall’inattivo, il quale un lavoro nemmeno lo cerca. Questa figura viene definita a volte con l’acronimo NEET (Not in Education, Employment or Training). Insomma il Neet è colui che non è occupato, non studia e non segue un percorso di qualificazione professionale. In Italia abbiamo un numero enorme di ragazzi di età compresa fra 15 e 29 anni, che si trovano in quella condizione. Sono scoraggiati e hanno perso interesse e fiducia nell’efficacia di qualunque iniziativa di riattivazione formativa. Alla radice di questo dramma è il sistema scolastico del nostro Paese, che è sostanzialmente fermo alla Riforma Gentile di un secolo fa, e all’idea che la scuola vada concepita in alternativa al lavoro, come se il lavoro sia una cosa sporca che contamina la purezza dell’attività educativa. Rispetto ad altri Paesi europei è altissimo il tasso di abbandono scolastico da parte di tanti studenti inseriti in un percorso di istruzione secondaria non coerente con le loro aspirazioni e i loro bisogni. In quasi tutti i Paesi nord-europei, in Germania, in Francia il sistema scolastico riserva grande attenzione all’orientamento degli alunni, e dispone di un apparato di “orientatori” (psicologi e altri esperti) che cercano di capire assieme al ragazzo quale possa essere lo sbocco a lui più adatto nella continuazione degli studi o nell’alternanza scuola-lavoro. In Italia no. L’orientamento è fatto per lo più in ambito familiare, da parte di genitori che tendono a spingere i figli verso la prosecuzione degli studi liceali e l’iscrizione all’università. Con il risultato che troppi giovani scelgono la facoltà sbagliata, vanno fuori corso, abbandonano gli studi. Il confronto con altri Paesi europei è impietoso per quanto riguarda la quote dei laureati in Italia. Troppo spesso inoltre da noi vengono snobbati gli istituti tecnico-professionali, quasi fossero una scelta educativa di serie B, al contrario di quanto avviene in altri Paesi a noi vicini.
Un altro segmento sociale particolarmente penalizzato rispetto alla dimensione lavoro è quello femminile. Cosa può dire al riguardo?
Se la quantità di occupati rispetto al totale della popolazione in età di lavoro in Italia è molto bassa, intorno al 62-63%, il panorama diventa ancora più impressionante se scorporiamo i dati rispetto al genere. Mentre il tasso di occupazione maschile in Italia si colloca poco sotto la media europea (anche se molto lontano dai livelli dei Paesi più virtuosi), lo stesso parametro precipita ad un disastroso 53%. relativamente all’universo femminile. Sappiamo quali siano le cause, e cioè in particolare la carenza di servizi di welfare familiare che facilitino alle donne di conciliare maternità e lavoro. E sappiamo come il quadro si faccia particolarmente tetro in alcune aree meridionali, dove il tasso di attività femminile scende addirittura al 30%.
Un altro apparente paradosso del mercato del lavoro italiano è il mismatch fra domanda e offerta di lavoro. Perché tanta distanza, se il bisogno di trovare un’occupazione è diffuso, e se le imprese hanno bisogno di nuovo personale?
Il fatto è che le aziende cercano competenze specifiche che faticano a reperire sul mercato. E torniamo all’origine dell’anomalia italiana: il sistema di istruzione scolastica e di formazione professionale. Abbiamo tantissimi istituti di formazione, ma sono pochissimi quelli di qualità. C’è una miriade di centri che offrono corsi “office” di informatica e di conoscenza “base” di qualche lingua straniera. E’ facile trovare insegnanti capaci di fornire quei livelli minimi di competenze. Ma le aziende sono interessate a ben di più. Se osserviamo il mondo universitario, in Italia abbiamo un tasso minimo di lauree “STEM” (un acronimo contenente le iniziali delle parole inglesi per Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica) e un altrettanto scarso numero di diplomati in materie scientifiche. Così sono troppi gli individui che non riescono ad accedere al mercato del lavoro perché offrono capacità e competenze ritenute inutili dal datore di lavoro. E non è solo un problema di formazione dei giovani, ma anche di riqualificazione per le fasce d’età più anziane. Se il tuo mestiere diventa obsoleto, dovresti cambiare campo e riciclarti in un settore che tira. Purtroppo manca un apparato che ti permetta di ricostruire il tuo know-how. Le imprese che operano nel campo della sicurezza informatica ad esempio avrebbero bisogno di migliaia di “data analysts”, ma ne trovano decine. Questo è, senza troppo esagerare, il rapporto fra domanda e offerta di competenze in quel settore.
Per continuare la serie dei paradossi, come si concilia il miglioramento dei livelli occupazionali con i contemporanei decrescenti e striminziti aumenti del Pil (Prodotto Interno Lordo) che si sono registrati nel corso di questi ultimi due anni? E in che modo ciò si collega al monito lanciato in questi giorni dall’ex-presidente della Banca Centrale Europea ed ex-premier italiano Mario Draghi, a guardarsi da una crescita essenzialmente basata sulla compressione dei salari?
Se l’occupazione sale e il Pil no, evidentemente i salari si abbassano. Se la mensa offre lo stesso servizio ma i commensali seduti al tavolo aumentano, mangeranno tutti di meno. Fuor di metafora, accade che le imprese abbiano bisogno di lavoratori, ma non crescendo non riescono a produrre ricchezza. E’ un circolo vizioso. Se devi restare sul mercato offrendo prodotti dal basso valore aggiunto, non ne deriva una crescita di buona qualità, ma una crescita fondata sul contenimento dei costi. E’ una tendenza che in Italia risale agli anni novanta con una concomitante concatenazione di lavoro poco produttivo, salari inchiodati, economia ferma. Se guardiamo i grafici che fotografano produttività, salari e Pil in Italia da allora ad oggi, notiamo il totale appiattimento delle tre curve, mentre gli stessi grafici per lo stesso periodo in Germania mostrano aumenti di circa il 35% per ciascuna delle tre voci. Qualcuno oggi si consola puntando l’indice contro le difficoltà che sta attraversando proprio la Germania in questo periodo, e dimentica che noi a differenza dei tedeschi, siamo fermi non da qualche mese ma da 30 anni.
Domanda ingenua: perché?
Ci siamo sempre cullati nei successi delle nostre piccole e medie imprese e nella retorica del “piccolo è bello”. Ma un tessuto industriale composto prevalentemente da imprese minori non produce innovazioni di sistema, non dà origine a veri e propri distretti industriali. E infatti in Italia non c’è una sola impresa che possa definirsi leader, campione in qualche settore produttivo. Nel manifatturiero in prevalenza produciamo per conto terzi. Siamo fornitori di semi-lavorati e componenti per l’industria a beneficio di società estere che sul prodotto finito “fanno marginalità”, cioè creano valore aggiunto. Poiché in questo modo noi invece produciamo poco valore aggiunto, per restare sul mercato ripieghiamo sull’abbassamento dei costi. Accade da 30 anni. Oggi il fenomeno crea maggiore allarme (ed ecco spiegata la preoccupazione di Draghi) perché si manifesta insieme ad una impennata dell’inflazione. Finché l’inflazione era pressoché vicina allo zero, la mancata crescita salariale non suscitava effetti dirompenti sul tenore di vita generale. Ma quando, come sta accadendo da un paio d’anni, i prezzi aumentano e le paghe restano al palo, il colpo è difficile da assorbire. In un biennio il potere d’acquisto medio è calato del 15-20%.
Siamo sotto Natale ed è tempo di pronostici per l’anno in arrivo. Che futuro intravede per la nostra economia e il nostro mercato del lavoro?
Sono solito rimproverare bonariamente ai miei amici economisti l’inaccuratezza delle loro previsioni. Un tempo ci voleva qualche anno perché gli scenari ipotizzati dagli esperti venissero smentiti dai fatti. Ora a volte bastano pochi mesi, anche perché gli assetti geo-strategici internazionali sono molto incerti ed assai fragili le prospettive di sviluppo basate su fattori volatili come la disponibilità e i prezzi delle materie prime. Non mi avventurerò quindi nel delineare paesaggi troppo complessi. Realisticamente possiamo comunque immaginare alcuni sviluppi probabili per quanto riguarda il mercato del lavoro italiano. In primo luogo ci sarà finalmente la chiusura di importanti rinnovi contrattuali. Alcuni sono già stati definiti nel corso del 2024. Ne restano da risolvere altri, come quello dei metalmeccanici. Per un quarto di secolo il rinnovo dei contratti di categoria non ha costituito un problema sociale di particolare rilevanza, proprio perché i prezzi erano stazionari. Ricordo addirittura qualche anno fa Confindustria affermare ironicamente che, essendo l’inflazione scesa sotto zero, anziché dare soldi ai dipendenti avrebbe dovuto chiedere la restituzione di quanto erogato in eccesso. Siamo in una situazione diversa. Il problema è se gli aumenti salariali concordati nei vari settori produttivi saranno sufficienti a garantire una ripresa economica. Temo di no, perché gli aumenti andranno a coprire l’inflazione attuale e futura, ma non quella subita negli anni scorsi, che ha eroso i risparmi dei cittadini. Gli italiani hanno una storica propensione al risparmio, e nella situazione attuale di incertezza e dopo le perdite degli ultimi anni, tenderanno a trattenere il denaro che affluirà nelle loro tasche grazie agli aumenti contrattuali, piuttosto che a spenderlo. Non mi attendo quindi un rilancio dell’economia.
E per quanto riguarda l’occupazione?
Non mi aspetto grandi scossoni. Chi oggi ha un lavoro (al netto di qualche crisi importante, ad esempio nel settore dell’automotive) lo manterrà. Non credo però che avremo ulteriori crescite dei livelli occupazionali sulla scia di quanto avvenuto negli ultimi due anni. Penso che siamo prossimi alla saturazione. Come può l’occupazione aumentare ulteriormente in un quadro di economia stagnante? Più in generale la transizione all’economia green, che è inevitabile, genererà nell’immediato la chiusura di certe attività. Per gli over-50 in particolare sarà complicato, dato il quadro non brillante del sistema di riqualificazione in Italia. Aggiungo che avevamo la possibilità di fare un grande balzo in avanti grazie ai fondi europei del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza). Purtroppo la stiamo sprecando. C’erano miliardi a disposizione per lanciare politiche attive per il lavoro. Ma avremmo dovuto usare quei fondi per rinnovare il sistema della formazione. Invece stiamo buttando soldi dentro a un meccanismo rimasto uguale a quello inefficiente di prima. Se alimenti un impianto idrico pieno di falle, non puoi aspettarti che l’acqua circoli all’interno e lo faccia funzionare bene. Il rischio è che le risorse del PNRR si esauriscano nell’erogazione di spesa corrente, senza avere creato alcuna nuova solida struttura per garantire la crescita negli anni futuri.