Agenzie per il Lavoro e Centri per l’Impiego agiscono in base a logiche differenti ma non contrapposte. Le Agenzie, somministrando lavoratori alle aziende, sono infatti esse stesse datori di lavoro. Purtroppo i Centri per l’Impiego spesso dispongono di scarse risorse e hanno problemi di comunicazione con le imprese. Auspicabile una migliore sinergia tra Agenzie e Centri. Ne parla in questa intervista la dottoressa Soraya Zanella, di recente diventata segretaria di Assosomm (Associazione Italiana Agenzie per il Lavoro).
Come descriverebbe, avvocata Zanella, il ruolo delle Agenzie per il Lavoro oggi in Italia? Sono l’inevitabile alternativa alle insoddisfacenti performance dei Centri per l’Impiego pubblici? Svolgerebbero un ruolo importante anche a fianco di un sistema pubblico ben funzionante?
Penso che le Agenzie per il Lavoro (Apl) svolgano un ruolo oggettivamente importante nell’economia italiana grazie alla loro conoscenza diretta delle mutevoli esigenze che si manifestano nel mondo produttivo. Io credo che pubblico e privato rispondano a logiche differenti e quindi non vadano messi in contrapposizione. Fanno lavori diversi e quindi è sempre auspicabile trovare una sinergia fra di loro. I Centri per l’Impiego (C.I.) sono più di 500 in Italia, gestiti a livello regionale, spesso con scarse risorse per investimenti. Alcuni riescono a mala pena a fare fronte al costo del personale. C’è una palpabile difficoltà di comunicazione tra imprese e C.I.. Bisogna conoscere le imprese, i cicli industriali, e questo spesso manca. Hanno infrastrutture informatiche non sempre al passo con i tempi. Sono per lo più impegnati nell’erogazione di sussidi e nelle attività di verifica sulla loro corretta fruizione. In conclusione, gli scopi delle Apl e dei C.I. non sono sovrapponibili. Si consideri in particolare che le Agenzie, somministrando lavoratori alle aziende, sono esse stesse datori di lavoro, e ciò le differenzia sostanzialmente dai Centri per l’Impiego.
Assosomm, di cui lui è diventata di recente Segretaria, è favorevole a una sorta di partnership fra le Agenzie private e lo Stato nella realizzazione delle politiche attive per il lavoro? Come potrebbe concretamente manifestarsi questa collaborazione?
Diciamo che pubblico e privato in questo campo non sono antagonisti. Se trovano forme di collaborazione ciò è nell’interesse sia dei lavoratori che delle aziende. Come dicevo, non c’è contrapposizione o concorrenza fra Apl e C.I. Un ambito nel quale sarebbe assai utile cooperare è la condivisione dei flussi informatici. Non essendo un’esperta in materia, penso che non sia semplice mettere in reciproca comunicazione le diverse piattaforme, ma vale sicuramente la pena provarci.
In che modo le Apl possono agire non solo per favorire l’incontro fra domanda e offerta di impiego, ma anche rispetto ad obiettivi più specifici come la ricollocazione dei cosiddetti esuberi? La perdita della propria occupazione accompagnata alla prospettiva di rientrare in un secondo momento nel mondo del lavoro, spesso è vista con sospetto sia dai singoli interessati che dalle organizzazioni sindacali.
A questo riguardo posso dire che le Agenzie per il lavoro fanno della formazione professionale il proprio punto di forza. E la formazione è la chiave per consentire a un disoccupato attuale o potenziale di ricollocarsi. Peraltro, quando un lavoratore assunto da una Apl a tempo indeterminato, per varie ragioni rimane privo di missione, non viene licenziato ma inserito nella cosiddetta procedura MOL (Mancanza di Occasioni di Lavoro) prevista dall’art. 25 del nostro CCNL (Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro) e gli vengono erogati dei corsi di formazione gratuita a sua scelta, in base alle sue inclinazioni e aspirazioni, d’intesa con le organizzazioni sindacali per tentare di ricollocarlo. E ciò le Apl fanno senza peraltro percepire alcun sussidio statale. Questo è un aspetto importante nel funzionamento della somministrazione. Del resto è anche nostro interesse non perdere forza lavoro, che potremmo nuovamente somministrare alle imprese utilizzatrici.
Più in generale quali sono i principali difetti del mercato del lavoro italiano?
Credo ci sia una discrasia fra le abilità/competenze richieste dalle aziende e le aspettative/competenze dei potenziali lavoratori. In particolare ciò riguarda i giovani che si affacciano sul mondo del lavoro dopo il percorso scolastico e le donne, che spesso tardano a rientrare al lavoro dopo la maternità. Abbiamo moltissimi distretti produttivi concentrati in poche Regioni, fondamentalmente al Nord. Quindi collocare o ricollocare una risorsa a Milano è molto più semplice che farlo ad Agrigento. C’è poi un problema demografico, di invecchiamento generale della popolazione. Inoltre non va dimenticato che i prodotti italiani concorrono con quelli provenienti da altri Paesi dove il costo del lavoro è esponenzialmente più basso. A tutto ciò si aggiunge un atteggiamento ideologico verso l’immigrazione. Per quanto da molte parti si dica che abbiamo troppi immigrati, dal punto di vista del mercato del lavoro è vero il contrario.
Vuole dire qualcosa di più su quest’ultimo tema?
Gli imprenditori concordano nel sostenere di avere bisogno di un numero più alto di persone provenienti dall’estero rispetto a quello esistente. Il cosiddetto “decreto flussi” pone limiti quantitativi troppo rigidi all’ingresso di persone in Italia., tant’è che le quote d’ingresso dei lavoratori stranieri vanno esaurite nel giro di pochi secondi il giorno del click-day. Noi come Assosomm da qualche tempo chiediamo che un capitolo del decreto flussi sia riservato alle Agenzie per il Lavoro. Abbiamo anche formulato la proposta di un progetto sperimentale triennale, che preveda di affidare alle Agenzie 25mila aspiranti lavoratori stranieri all’anno. Noi possiamo mettere sul piatto della bilancia i nostri Corsi di Formazione Professionale che rappresentano davvero il nostro fiore all’occhiello. Sappiamo come operare in questo settore, a partire dai corsi di lingua italiana, che per l’inserimento degli immigrati sono ovviamente di fondamentale importanza. Al momento non sappiamo se questa nostra proposta sarà accettata. E’ prematuro dirlo, ma si sta cercando un’interlocuzione a livello istituzionale.
C’è qualche esempio di mercato del lavoro in Europa, che possa fungere da modello al quale ispirarsi per riformare il nostro?
E’ difficile rispondere, qualora il ragionamento resti confinato all’interno del mercato del lavoro stesso. Dire ad esempio che il modello tedesco o di alcuni Paesi scandinavi sia preferibile al nostro sarebbe inesatto se ci limitassimo a parlare di mercato del lavoro in senso stretto. Confrontare i meccanismi dei diversi mercati del lavoro è un esercizio sterile infatti se non si guarda al contesto in cui i singoli mercati operano. In altre parole per valutare la bontà di un mercato del lavoro bisogna allargare il campo d’osservazione, includendovi il funzionamento della scuola e il suo rapporto con il mondo produttivo, i sostegni che vengono offerti alla popolazione femminile e alle famiglie, le garanzie e le tutele dei cittadini e dei lavoratori nel sistema del welfare, etc
Secondo alcuni esperti ed operatori economici ci vorrebbe maggiore flessibilità. Secondo altri ce n’è fin troppa e ciò si traduce a danno dei lavoratori sia in termini retributivi che di tutele giuridiche. Qual è la sua opinione?
La flessibilità se ben praticata garantisce la possibilità di trovare in fretta del personale formato e maggiori possibilità di impiego. Il ché è cosa ben diversa dal precariato. Ma anche in questo caso conta il contesto. Una cosa è la flessibilità esercitata nel quadro di un sistema che offra tutele giuridiche e sicurezza sociale ai lavoratori e ai disoccupati; altro è una flessibilità priva di questa rete protettiva. Inoltre diversi sono gli effetti della flessibilità all’interno di un mercato del lavoro dinamico o di un mercato contratto e ingessato. Le Apl in ogni caso rappresentano una garanzia sia per le imprese che per i lavoratori.
Tornando ai Centri per l’Impiego, a cosa imputerebbe i difetti di funzionamento: poco personale, arretratezza tecnologica, scarso coordinamento fra le varie istanze locali? E’ la eccessiva frammentazione il difetto principale?
Ho descritto prima alcune caratteristiche dei Centri per l’Impiego in Italia: gestiti su base regionale, dotati di risorse per gli investimenti piuttosto scarse, a volte con palpabili difficoltà di comunicazione con le aziende. Sarebbe bello poter dire che va cambiato tutto, ma non funziona così. Non credo che il problema principale sia il fatto che vengono gestiti a livello regionale. Il problema è sistemico.
Secondo il Censis le Agenzie private godono di un buon livello di apprezzamento da parte dei soggetti che vi ricorrono. Quali sono invece le critiche che vi sentite normalmente rivolgere dagli imprenditori da un lato e dall’altro da coloro che aspirano a trovare tramite voi un’occupazione?
Le critiche che arrivano dal mondo imprenditoriale vertono in particolare sulla difficoltà che abbiamo noi, così come hanno gli imprenditori stessi quando assumono per chiamata diretta, nel reperire certe particolari figure professionali. Non siamo soliti ricevere critiche invece da chi si rivolge a noi per trovare un’occupazione. D’altra parte se un lavoratore ha qualcosa di cui lagnarsi, spesso le criticità riguardano l’ambiente di lavoro, e dunque non direttamente le Apl. In ogni caso non direi che ci siano lamentele specifiche che interessano il settore.
Recentemente Assosomm ha messo in evidenza alcune pecche del nostro mercato del lavoro. Una di queste è la notevole diffusione del lavoro nero. Come giudica e come spiega questo fenomeno?
Per me è un problema culturale e sociologico. Manca spesso in questo Paese l’idea che il bene collettivo debba prevalere su quello del singolo. Non c’è la cultura che le tasse siano un bene per la collettività. Non dico che siano “bellissime” come affermò un ex-ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa Schioppa, ma sono un mezzo necessario per fare fronte alle spese pubbliche. Gli imprenditori che assumono in nero fanno del male al lavoratore, privato delle sue garanzie (pensiamo alla previdenza, alla Naspi, alla maternità); danneggiano gli altri imprenditori perché fanno concorrenza sleale pagando un costo più basso per un importante fattore produttivo; fanno male al sistema complessivo perché lo privano di risorse necessarie all’intervento del settore pubblico (scuola, sanità, infrastrutture). Gli utenti dovrebbero comprendere che se la prestazione viene pagata in nero sono i primi a perderci. La quota di tasse portata via allo Stato è più alta del risparmio per il singolo individuo o imprenditore.
La difficoltà denunciata da molte aziende nello scovare persone dotate di certe competenze specifiche (operai specializzati, tecnici con conoscenze digitali, etc.), non dipende a volte anche dalle paghe troppo basse che vengono proposte? Servirebbe una legge sul salario minimo?
A proposito di questa questione, noi in Italia abbiamo uno strumento importante a disposizione, cioè i contratti collettivi di lavoro. Se usati bene, sono uno strumento risolutivo. Le Apl agiscono secondo un contratto collettivo di settore firmato assieme alle principali organizzazioni sindacali: Nidil Cgil, Felsa Cisl, Uiltemp. che impegna le agenzie stesse a garantire i minimi salariali e gli altri diritti spettanti ai lavoratori. In via residuale e sussidiaria vengono applicate le disposizioni contenuti nei CCNL degli utilizzatori. Non si dimentichi che un lavoratore somministrato ha i medesimi diritti economici e normativi di un dipendente diretto. Delle norme specifiche sul salario minimo non sarebbero necessariamente determinanti se i contratti collettivi fossero ben applicati. Purtroppo c’è stato un proliferare di CCNL, anche “contratti pirata”. In questi casi bisogna prestare molta attenzione, ma forse la questione andrebbe normata.