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Dati e giudizi sull’Immigrazione. Se ben gestita, è una risorsa per l’economia

VENERDÌ 28 GIUGNO 2024 | Lascia un commento
Foto Dati e giudizi sull’Immigrazione. Se ben gestita, è una risorsa per l’economia
Scritto da Gabriel Bertinetto

Spesso criticata come un aspetto negativo dei cambiamenti sociali ed economici in corso nei paesi sviluppati, l’immigrazione sarebbe in realtà un fattore di crescita e di sviluppo purché si sappia gestirla in maniera adeguata. Ne sono convinti molti esperti ed imprenditori, e lo stesso governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta ha affrontato recentemente l’argomento proprio in questi termini. Panetta ha  auspicato un incremento del flusso di lavoratori stranieri regolari in Italia che vada oltre la cifra dei 170mila all’anno previsti dall’Istat per il prossimo quindicennio. L’Istat ha calcolato che da ora sino al 2040 il numero di persone in età lavorativa in Italia calerà di quasi 5 milioni e mezzo, e ad arginare questa contrazione non basterà l’arrivo di lavoratori dall’estero se esso si manterrà entro quei limiti. “E’ possibile che un sostegno all’occupazione derivi da un flusso di immigrati regolari superiore a quello ipotizzato dall’Istat -ha detto Panetta nella relazione intitolata “Considerazioni Finali” che i governatori della Banca d’Italia sono soliti tenere annualmente a fine maggio- Occorrerà gestirlo in coordinamento con gli altri paesi europei bilanciando le esigenze della produzione con gli equilibri sociali e rafforzando le misure di integrazione dei cittadini stranieri nel sistema di istruzione e nel mercato del lavoro”.

 

Sulla medesima lunghezza d’onda rispetto al governatore della Banca d’Italia sembra essere Giovanni Peri, ricercatore dell’Università della California, quando respinge uno degli argomenti sovente tirati in ballo dagli avversari dell’immigrazione, e cioè i presunti effetti nocivi sulla dinamica salariale. I lavoratori locali, secondo la tesi avversata da Peri, sarebbero penalizzati dalla concorrenza al ribasso che la presenza di manodopera estera eserciterebbe sulle retribuzioni. Questo potrebbe essere vero, sostiene lo studioso, se si verificasse un fenomeno di sostituzione dei nuovi arrivati rispetto ai locali. Nella realtà il più delle volte non si verifica una competizione fra gli uni e gli altri per le stesse opportunità di lavoro; semmai vengono riempiti dai primi degli spazi lasciati vuoti dai secondi. In altre parole i lavoratori venuti da fuori sono complementari rispetto agli autoctoni. 

 

Peri sfata alcuni luoghi comuni diffusi anche in ambienti accademici, ad esempio l’idea che l’emigrazione sia un fenomeno cresciuto in maniera abnorme e quindi difficilmente gestibile. In realtà il rapporto fra numero totale di migranti rispetto alla popolazione mondiale era nel 2020 esattamente lo stesso di quello registrato nel 1970, cioè il 3%. Inoltre, se si guarda al fenomeno migratorio nel suo complesso, le persone che lasciano il proprio paese hanno in genere un livello culturale e competenze più alte rispetto a chi resta, e manifestano un più vivo spirito imprenditoriale oltre che una capacità di adattamento maggiore. Le cose non vanno esattamente così dappertutto, ma avendo studiato in particolare la situazione statunitense, Peri ha scoperto che gli stranieri occupati nel settore “Stem” (un acronimo che corrisponde alle iniziali in lingua inglese delle parole Scienza, Tecnologia, Ingegneria, Matematica) contribuiscono per un terzo alla crescita produttiva delle regioni in cui vanno ad operare. 

 

Esiste però un’altra porzione importante dell’umanità migrante, più visibile a causa delle circostanze drammatiche in cui avviene lo spostamento, ed è costituita in genere da individui con livello d’istruzione basso. A proposito di questi ultimi l’analisi del prof. Peri si snoda in un confronto fra la realtà di Stati Uniti e Canada da un lato ed alcuni Paesi europei dall’altro. Risulta che mentre nei due Paesi nordamericani i tassi occupazionali di immigrati e indigeni nel lungo periodo si allineano, nel nostro continente invece la disoccupazione colpisce prevalentemente gli stranieri anche molto tempo dopo il loro arrivo. Questo fenomeno potrebbe essere contrastato se si adottassero politiche simili a quelle applicate in Danimarca, che puntano ad abbattere l’ostacolo principale all’integrazione, cioè la barriera linguistica. Gli immigrati che partecipano ai corsi di 400 ore annue di lingua danese trovano lavoro molto più facilmente.

 

Il tema dell’integrazione è sovente abbinato alle preoccupate denunce sul calo della natalità. Il tasso di fecondità in Italia è sceso a 1,2 figli per donna e la popolazione italiana negli ultimi dieci anni è calata di quasi 2 milioni. L’afflusso di persone da altri paesi compenserebbe la diminuzione delle nascite in Italia e più in generale in Europa. Questo consentirebbe di rimediare almeno in parte alla crisi del welfare e del sistema pensionistico in particolare, perché gli immigrati con impieghi regolari pagano le tasse e versano i contributi. 

 

Quando si sottrae il tema dell’immigrazione alle trappole della propaganda ideologica, del pregiudizio e della speculazione politica, emerge che il problema vero non è quello di bloccare l’arrivo degli stranieri bensì quello di gestirlo in maniera razionale. Sono gli imprenditori stessi attraverso le loro associazioni di categoria a chiedere che sia consentito l’ingresso in Italia a un maggior numero di lavoratori dall’estero. L’attivazione di canali legali e lo snellimento delle pratiche burocratiche per esaminare le richieste e concedere i visti sono il miglior antidoto agli afflussi irregolari, via terra o via mare, nei quali sono messe a repentaglio vite umane e sui quali la criminalità lucra. Nel 2023 i datori di lavoro italiani hanno chiesto un numero di ingressi 6 volte superiore a quello previsto dalle autorità governative: 462mila rispetto a 74mila. Di questi 74mila alla fine, causa la lentezza e farraginosità delle procedure, sono poi effettivamente approdati neanche 18mila! Un problema è quello del cosiddetto “click-day”. In una certa data e solo in quella, gli imprenditori possono presentare l’istanza. Questo crea un ingolfamento paralizzante.

 

Una ricerca svolta da “Susini Group STP” indica che gli stranieri presenti sul nostro territorio sono circa 4 milioni e il loro lavoro vale 107 miliardi di euro, il ché corrisponde al 7,5% del PIL (Prodotto Interno Lordo). Se si riuscisse a regolarizzare la posizione di coloro che attualmente o sono disoccupati o operano in nero, il PIL ne trarrebbe un giovamento calcolabile in 23 miliardi di euro. Quanto spazio occupi il lavoro degli immigrati nella nostra economia emerge chiaramente anche dal “Rapporto sulle migrazioni 2023” redatto dalla Fondazione ISMU (Iniziative e Studi sulla Multi-Etnicità): nel 2022 essi erano quasi l’11% della forza lavoro, e più del 10% degli occupati. Naturalmente le percentuali variano da settore a settore. Il comparto dove gli stranieri sono più numerosi è quello dei servizi, in particolare quelli alla persona, con il 31% del totale. Cospicua la presenza anche nell’agricoltura, nell’edilizia, nell’industria turistica e nella ristorazione. In ciascuno di questi settori rappresentano più del 15% degli occupati complessivi.  

 

In confronto ad altri Paesi europei però, in Italia arrivano immigrati con un livello d’istruzione più basso. Solo il 12% ha fatto l’università, mentre la percentuale degli autoctoni laureati si aggira intorno al 20% (assai meno che nel resto d’Europa peraltro). Inoltre il mismatch fra titolo di studio e mansioni effettivamente svolte, che già è consistente per i nativi (19%), nel caso dei laureati stranieri sale fino al 60%.  

 

Ma il peso degli immigrati nell’economia nazionale non sta solo nell’offerta di manodopera. Cresce anche il numero degli imprenditori. A fine 2023 risultavano iscritte al Registro Imprese delle Camere di Commercio più di 659mila aziende appartenenti ad immigrati, il ché corrisponde all’11% del totale nazionale. La grande maggioranza dei titolari proviene da altri continenti, e la tendenza è in costante aumento. Rispetto al 2019 sono cresciute del 7% le aziende di imprenditori stranieri, mentre sono calate del 3% quelle locali. Interessante anche notare che il maggiore incremento si trova fra le società di capitale piuttosto che fra quelle individuali che comunque rappresentano tuttora oltre il 70% del totale. Le imprese dirette da immigrati sono particolarmente numerose nel commercio, ma i settori in cui si è verificato un aumento più consistente negli ultimi anni sono l’agricoltura e le costruzioni. In cifre assolute è la Lombardia con il 30 per cento ad ospitare il grosso delle imprese straniere, ma in rapporto alla popolazione, la province con la maggiore concentrazione sono Prato, Trieste e Firenze. Gli stranieri più propensi all’imprenditoria, almeno qui in Italia, sono marocchini, romeni e cinesi. I primi sono perlopiù concentrati in Calabria e Sicilia, i secondi sono distribuiti in maniera abbastanza omogenea in diverse aree della penisola, mentre i cinesi operano soprattutto nell’Italia centrale (Toscana e Marche).



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