Fenomeno Job Creep: quando manca il giusto bilanciamento tra lavoro e vita privata. Apparso per la prima volta negli anni '2000, e poi scomparso qualche anno dopo in concomitanza con la crisi finanziaria del 2008, il job creep, o work creep, torna a far parlare di sé, complici anche le nuove modalità di lavoro smart e ibride.
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Gli inglesi lo chiamano anche Work Creep e letteralmente significa “lavoro strisciante”. Un fenomeno tornato in voga dopo circa venti anni dal suo “battesimo”. Un fatto piuttosto strano vista la netta contrapposizione con i fenomeni più noti del quiet quitting e della great resignation, caratterizzati dalla volontà dei lavoratori di non farsi schiacciare dal lavoro ma, al contrario, stare meglio ponendo al primo posto la salute e il benessere psicofisico.
Il Job Creep, infatti, è tutta un'altra cosa: in questo caso il dipendente tende ad assumersi più incarichi di quelli relativi alla propria mansione, a estendere l'orario di lavoro oltre i limiti contrattuali e a rimanere sempre collegato al computer o allo smartphone, sempre a disposizione di superiori e colleghi. Si risponde quindi alle mail aziendali e si interagisce costantemente alle chat lavorative anche a tarda sera senza che ci siano aumenti di stipendio effettivi o promessi. Ne consegue uno sbilanciamento del cosiddetto work-life balance a favore della vita professionale, con relativo stress e peggioramento della qualità della vita.
Per ora solo i media inglesi hanno riscontrato questo inaspettato ritorno, per questo si tratta di un fenomeno per ora isolato solo al Regno Unito. La ragione sarebbe da ricondurre all’avvento dello smart-working e del lavoro ibrido che, con i loro vantaggi come costi inferiori e minore inquinamento, scatenerebbero anche l'effetto contrario, ovvero quello di non fermarsi mai.
Il voler continuare a lavorare a oltranza senza mai fermarsi può essere una conseguenza delle nette trasformazioni che stiamo vivendo negli ultimi anni. Il lavoro, tra lockdown e pandemie, ci ha resi lavoratori quasi instabili, senza un ufficio, senza colleghi, o perlomeno, esistenti solo virtualmente tra le mura della propria casa. Per alcuni non è stata di certo una novità, ma per la maggior parte delle persone, stare a casa e cambiare totalmente i regimi lavorativi ha sconvolto tutta la loro esistenza. Lo smart working e, in generale, il lavoro da remoto, hanno consentito di dedicare più tempo ai propri affetti, alla propria famiglia e ai propri hobby ma, purtroppo per alcuni, si è anche verificato il rovescio della medaglia: non aver saputo rallentare i propri ritmi.
Questo è il job creep: l'insaziabile volontà di non fermarsi mai, ma di continuare a produrre e assumersi maggiori responsabilità, anche se queste non corrispondono necessariamente a promozioni o aumenti in busta paga. Il motivo può essere riconducibile soprattutto agli strumenti tecnologici senza i quali non possiamo più lavorare come accadeva tanti anni fa; con l'arrivo della pandemia, poi, abbiamo iniziato a utilizzare software in grado di dilatare sempre di più i tempi di lavoro, probabilmente senza neanche accorgercene.
Pensiamo solo al tempo speso sulle app di messaggistica (che permettono di inviare aggiornamenti a qualsiasi ora del giorno), e di videochiamate (che in base ai dati della piattaforma Teams sono aumentate del 153%). Risulta quindi quasi “normale” che il lavoratore si senta in dovere di essere sempre disponibile. E poi, ad esempio, in molti casi la pausa pranzo viene spesso trascorsa davanti al pc, e se alla fine dell'orario di lavoro, non si sono terminate le mansioni, si può andare avanti anche per ore e ore.
La comodità di operare comodamente da casa si può tradurre quindi in una maggiore disponibilità in termini di tempo e incarichi da assumere, permettendo al lavoro di strisciare e insinuarsi nella vita privata.
Il job creep, pertanto, riesce a oltrepassare i confini della vita privata, soprattutto quando si lavora da remoto. Questo perché riesce ad agire sfruttando il valore psicologico del riconoscimento, e quindi volendo sempre soddisfare sia le proprie aspettative che quelle altrui, come quelle del capo o dei colleghi. Inoltre, si tratta molto spesso di lavoratori che hanno a cuore non solo il proprio posto di lavoro, ma anche la performance dell'azienda.
Questo eccesso di responsabilità può anche risultare contagioso per chi non vuole sentirsi meno rispetto agli altri; alla lunga, però, questo comportamento risulta essere dannoso per la salute del lavoratore, che rischia il burnout, l'esaurimento nervoso da troppo stress da lavoro.
La soluzione è combattere questo fenomeno prima di tutto con l'onestà, fissando le aspettative con noi stessi, con il team e con i supervisori, cercando di essere efficienti ma con più attenzione e imparando anche a dire di no, senza alcun timore. Lavorare di più non significa lavorare meglio, e lavorare da casa non si traduce con la disponibilità h24. Anche se siamo diventati lavoratori virtuali, siamo prima di tutto persone che hanno diritto alla propria vita privata e a sentirsi liberi di essere sé stessi, senza che il lavoro interferisca nelle questioni private o quando se ne sente più bisogno.
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