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In 20 anni 2 milioni di giovani occupati in meno: Il demografo prof. Rosina spiega in che modo la denatalità penalizza il mondo del lavoro in Italia

MERCOLEDÌ 22 GENNAIO 2025 | Lascia un commento
Foto In 20 anni 2 milioni di giovani occupati in meno: Il demografo prof. Rosina spiega in che modo  la denatalità penalizza il mondo del lavoro in Italia
Scritto da Gabriel Bertinetto

Vent’anni fa in Italia un terzo degli occupati aveva meno di 35 anni; oggi neanche uno su quattro. E’ uno dei dati più sconvolgenti del rapporto che il professor Alessandro Rosina, docente di demografia e statistica sociale presso l’Università Cattolica, ha curato per il CNEL (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro). In questa intervista il prof. Rosina spiega in che modo la denatalità incida pesantemente sullo stato del mercato del lavoro e dell’economia in generale.

 

Nel rapporto “Demografia e Forza Lavoro” che lei ha preparato nelle vesti di consigliere del CNEL, si afferma che l’Italia sembra essere entrata in una fase di impoverimento della forza lavoro. A cosa si riferisce, prof. Rosina? 

 Tradizionalmente in passato le popolazioni avevano un’abbondanza di giovani perché i livelli di natalità erano alti (oltre 2 figli per coppia). Ciò alimentava l’ingresso costante di nuove leve nel mondo del lavoro e dava una spinta alla crescita economica. Questa fase dello sviluppo demografico è giunta al termine non solo in gran parte del mondo occidentale ma anche in altre aree, ad esempio oramai anche in Cina. Il rinnovo generazionale si è indebolito. Si è esaurito il dividendo demografico, vale a dire che la popolazione in età da lavoro è meno numerosa di quella che comprende minorenni ed anziani (65 e oltre). In Italia questo fenomeno, che è abbastanza generalizzato a livello internazionale, si manifesta in maniera particolarmente accentuata. Non siamo solo sotto la soglia dei 2 figli per donna, ma addirittura (da 40 anni) sotto 1,5. E poiché da noi la longevità è superiore rispetto a molti altri Paesi, l’impatto della ridotta natalità si fa sentire in maniera ancora più forte. L’indice di dipendenza economica degli anziani (cioè il rapporto fra gli inattivi ultra-sessantacinquenni e gli occupati di età inferiore a 65 anni) supera il 60%, una percentuale ben più alta rispetto alla media europea che si aggira intorno al 45%. Abbiamo così una situazione in cui, mentre aumenta la domanda di cura e assistenza da parte degli anziani, cala la quantità di persone che lavorando versano contributi e pagano imposte che alimentano i fondi da destinare alle pensioni ed al welfare. 

 

La denatalità è come lei sottolinea un fenomeno internazionale, ma particolarmente accentuato in Italia. In altri Paesi europei, ad esempio la Germania e la Francia, negli ultimi anni sono state varate misure che hanno favorito un rialzo del tasso di fecondità. Ci sono stati investimenti consistenti per i congedi di paternità, gli asili nido, etc. Sono politiche che potrebbero funzionare anche da noi?

 Non c’è motivo per cui non dovrebbero, visto che si tratta di Paesi abbastanza simili al nostro per assetti sociali e livelli di sviluppo economico. In sostanza si tratta di fornire a giovani e donne sostegni adeguati per facilitare la decisione di mettere al mondo dei figli. In aggiunta ai congedi di paternità ed agli asili nido, servirebbero politiche abitative che rendano più realizzabile l’idea di farsi una famiglia, e scelte imprenditoriali che vengano incontro all’esigenza molto sentita di conciliare i tempi di lavoro con la vita privata. Anche il part-time allora, anziché essere una soluzione imposta dalla necessità, potrebbe diventare una scelta, come già è in molte realtà del nord Europa.

 

In Italia da diversi anni la questione della de-natalità e dei possibili rimedi viene posta sovente da parte delle varie forze politiche, di governo e di opposizione. Come valuta il dibattito intorno a questi temi?

 Il problema è che la politica italiana affronta questi problemi senza lungimiranza. Non c’è la capacità di anticipare i cambiamenti in arrivo nei successivi 5 o 10 anni. Così si varano provvedimenti tarati sulla necessità immediata, tali da risultare inefficaci perché rapidamente superati dagli sviluppi in corso. Servirebbe uno sguardo che andasse oltre la contingenza. Altri Paesi anticipano i cambiamenti, noi li rincorriamo. Tamponiamo anziché prevenire. Per venire alla questione demografica, ciò si combina con il fatto che fino a dieci anni fa, a fianco di un incremento numerico della fascia di popolazione anziana, si accompagnava un calo non ancora eccessivo della componente giovanile. Non siamo stati capaci di prevedere che il divario, come in effetti è accaduto, si sarebbe rapidamente accentuato, e non abbiamo preso iniziative per evitarlo. Abbiamo ignorato le trasformazioni demografiche in fieri perché complessivamente c’era comunque una massa di popolazione attiva entro cui le aziende potevano pescare forza lavoro. Il fatto è che i giovani a un certo punto diventano adulti e poi anziani. E se gli ex-giovani non vengono rimpiazzati da nuovi  giovani viene fuori il problema in cui ci troviamo ora. Se vent’anni fa un terzo degli occupati aveva meno di 35 anni, oggi questo vale per neanche uno su quattro. Il ché corrisponde a due milioni di giovani occupati in meno nell’arco di un ventennio. Insomma, avendo sottovalutato i cambiamenti demografici, siamo arrivati al punto in cui il calo demografico ora “morde” la forza lavoro. Siamo stati talmente colti di sorpresa da non avere nemmeno formulato un termine per definire la situazione in cui ci troviamo. Continuiamo a parlare di crisi della natalità citando l’”invecchiamento” della popolazione. Il ché è certamente un aspetto della faccenda. L’altro è la contestuale riduzione del numero dei giovani, un galoppante “de-giovanimento”. Ecco il nuovo vocabolo da usare.

 

Come gestire questo fenomeno?

 Occorre tenere conto che non si tratta solo di un problema quantitativo, di numeri, ma anche qualitativo. I giovani non sono solo di meno, ma sono anche meno inseriti nelle dinamiche del mercato del lavoro,  socialmente più marginalizzati, sempre più orientati a cercare oltre frontiera quelle opportunità che non trovano o non vengono valorizzate da noi. Abbiamo un tasso di dispersione scolastica sopra la media europea e un basso tasso di completamento degli studi universitari. Altri Paesi hanno anche loro tassi di natalità bassi, comunque inferiori ai 2 figli per donna, ma  fronteggiano la situazione con più efficienti politiche attive per il lavoro, la formazione e la riqualificazione professionale. Qualche opportunità ce l’offrirebbe il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) finanziato con i fondi della UE. Ma si procede troppo lentamente e con bassa capacità di efficace implementazione sul territorio. 

 

C’è chi sostiene che l’immigrazione potrebbe favorire una ripresa della natalità. Lei che ne pensa?

 Certo l’afflusso di stranieri accresce il numero di persone in età adatta a mettere al mondo dei figli. Ma ciò da sé non basta, perché anche per l’immigrato valgono le stesse ragioni che possono distornare i cittadini autoctoni dai progetti di sposarsi e avere bambini. Anche la coppia di immigrati può rinunciare ad ampliare il nucleo familiare se, come è il caso italiano, gli asili nido coprono solo il 30% del fabbisogno, ben lontano dal 45% che è l’obiettivo fissato dalla UE, e ancora più lontano dal 50 o 60% raggiunto da alcuni Paesi nordeuropei. Più in generale occorre affrontare questi problemi con un approccio globale e integrato. Favorire l’aumento delle nascite è un passo necessario da compiere insieme alla messa in atto di politiche che favoriscano una maggiore inclusione sociale e una migliore conciliazione fra tempi di vita e lavoro.



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