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L’economia dipende dal fattore umano ma il lavoro deve nutrirsi di competenze. A colloquio con il prof. Romano Benini

MARTEDÌ 30 GENNAIO 2024 | Lascia un commento
Foto L’economia dipende dal fattore umano ma il lavoro deve nutrirsi di competenze. A colloquio con il prof. Romano Benini
Scritto da Gabriel Bertinetto

Fondamentale in economia è il fattore umano. In altre parole “è il lavoro che fa l’economia e non il contrario”, spiega Romano Benini, docente di Politiche del lavoro all’Università Sapienza di Roma ed alla Link Campus University. Ma oggi, aggiunge il prof. Benini in questa intervista, “il lavoro fa l’economia se si nutre di competenze”. La riqualificazione professionale è fondamentale per il disoccupato che voglia reinserirsi nel mercato del lavoro. Purtroppo degli 800mila che, essendo iscritti al programma GOL, sarebbero impegnati a seguire corsi di formazione, meno della metà lo fa effettivamente. Il problema dipende dalla difficoltà dei sistemi regionali nell’avviare i percorsi di riqualificazione in tempi idonei.

 

Come lei ha scritto alcuni anni fa in uno dei suoi libri (“Il fattore umano. Perché è il lavoro che fa l'economia e non il contrario”), non basta la dimensione del PIL (Prodotto Interno Lordo) per misurare lo stato di salute di un’economia. Un elemento altrettanto importante da prendere in considerazione è il lavoro, non solo in termini quantitativi (ad esempio i livelli occupazionali) ma anche qualitativi (ad esempio la rete di protezioni sociali in cui è inserito). Può sviluppare l’argomento, prof. Benini?

Il mercato del lavoro si trova in una fase di transizione ed effettivamente può suonare profetico quanto affermai nel 2016 in quel libro scritto assieme a Maurizio Sorcioni. Il concetto in parole povere era: non è l’economia a fare il lavoro; è il lavoro che fa l’economia. Questo è un discorso che vale soprattutto per i Paesi dell’area OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) che puntano ad una crescita integrata, fatta di sviluppo economico e sociale assieme. Oggi completerei l’affermazione di qualche anno fa aggiungendo che il lavoro fa l’economia soprattutto se si nutre di competenze. Parlare di competenze implica parlare di digitalizzazione, e noi italiani su questo versante potremmo e dovremmo fare molto di più. Invece purtroppo siamo alle prese con un deficit di competenze. Anche nelle attività più strutturate e stabili la difficoltà da parte delle aziende nel recuperare competenze adeguate si colloca intorno al 50% della richiesta. 

 

Importante è avere un lavoro, ma altrettanto importante è la “qualità” del lavoro che si fa. Quali sono i principali fattori da cui dipende la qualità del lavoro?

In Italia abbiamo aziende abbastanza competitive che non sono però in grado di fare sistema. La competitività e la produttività dipendono anche dal rapporto fra innovazione organizzativa e innovazione tecnologica. Abbiamo imprese come Luxottica e Ferrero, che rappresentano esempi molto positivi della capacità di incrementare (nel caso specifico addirittura raddoppiare) la produttività e al tempo stesso migliorare le condizioni di lavoro introducendo la settimana di 4 giorni. Ma il nostro diffuso tessuto imprenditoriale di aziende piccole e medie fatica a raggiungere standard di quel tipo. Penso in particolare al settore del turismo e dei servizi alla persona. Il fatto è che l’evoluzione dell’economia italiana non è lineare. Molte realtà imprenditoriali non offrono stipendi e condizioni lavorative adeguate, e faticano a reperire il personale necessario. Possiamo anche dire che oggi rispetto al passato è meno forte il “ricatto” occupazionale, e i giovani non accettano qualunque tipo di lavoro sia loro offerto. Se non sono soddisfatti, se ne vanno, e non sto parlando solo dell’emigrazione all’estero, ma anche di un fenomeno che si sta manifestando negli ultimi tempi, ed è la migrazione interna. Prima di optare per Londra, il ragazzo calabrese in cerca di lavoro, magari si sposta a Modena o a Verona.

 

In un Paese con alti livelli occupazionali il rifiuto di una possibilità lavorativa non sorprenderebbe affatto, ma in Italia siamo abituati a pensare che pur di trovare un impiego molti siano disposti ad accettare qualunque offerta. Invece?

Il mercato del lavoro attuale è diverso rispetto a dieci anni fa. In quella situazione lo squilibrio fra bassa domanda ed alta offerta era tale da far sì che fossero numerosi coloro che cercavano un impiego purchessia. Oggi viviamo una realtà più complessa in cui la disoccupazione presenta vari aspetti. Al primo posto sta la carenza di competenze adeguate. Ciò rientra nel quadro della disconnessione storica tra formazione e lavoro, tipica della nostra realtà nazionale. Vent’anni la licenza di terza media era il titolo di studio più diffuso tra i lavoratori. Ancora oggi il 50% dei disoccupati hanno bisogno di una riqualificazione professionale. Il programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori) previsto dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) cerca di affrontare il problema, ma è un programma di lunga durata e di difficile attuazione. Alcune Regioni hanno legato l’erogazione dell’indennità di disoccupazione all’obbligo di partecipare ai corsi di formazione. Un altro fattore importante è che la crescente digitalizzazione delle attività economiche comporta la ricerca di lavoratori qualificati. Prima della emergenza Covid il trenta per cento dei posti di lavoro erano disponibili per individui privi di particolari capacità professionali. Quella percentuale oggi si è dimezzata. Dei due milioni e mezzo di disoccupati la maggior parte o sono persone senza adeguate competenze oppure appartengono alla categoria dei giovani NEET, che non studiano, non lavorano, non cercano di riqualificarsi. Insomma in buona sostanza il problema della disoccupazione oggi in Italia sta nella carenza di competenze. C’entra anche la scarsa domanda di lavoro, ma questo solo nelle aree più arretrate. Quando l’imprenditore trova la persona fornita delle competenze richieste, se lo tiene stretto. E questo spiega perché negli ultimi due anni almeno al centro-nord sono aumentate le assunzioni a tempo indeterminato.

 

Un esempio dell’arretratezza del nostro mercato del lavoro è dato dai servizi pubblici di cui può avvalersi chi è in cerca di lavoro. I Centri per l’Impiego in particolare sono insufficientemente informatizzati e contano su un numero di addetti assai inferiore rispetto a Germania e Francia. Può descrivere questa situazione, spiegarne le cause e indicare i possibili correttivi?

Questo è un problema annoso. Nel 2020 fu varata una riforma per il raddoppio dei Centri per l’Impiego, ma fu sospesa a causa della pandemia. Dovrebbero essere assunti 6000 nuovi operatori ma siamo in ritardo. Quello che soprattutto servirebbe è un più efficace coordinamento nazionale per evitare che le Regioni agiscano ciascuna per conto suo. Recentemente è stata creata una piattaforma comune in cui governo e Inps caricano i dati sulla domanda e offerta di lavoro assieme alle Regioni. Purtroppo non tutte le Regioni collaborano allo stesso modo. Le varie agenzie per il lavoro accreditate a livello regionale fanno riferimento alla Regione d’appartenenza. Prima c’era l’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive per il Lavoro), ora sostituita da Sviluppo Lavoro Italia. ANPAL essenzialmente si limitava a certificare e verificare le attività delle agenzie regionali. Sviluppo Lavoro Italia invece si propone anche di promuovere e guidare. Aspettiamo di vedere i risultati.

 

Il posto fisso appartiene sempre più al passato, così come la permanenza nella stessa azienda per lunghi periodi. In un contesto produttivo sano questo tipo di mobilità dimostrerebbe che il mercato del lavoro è dinamico e ricco di opportunità. Ma nella realtà italiana che accade?

Chiedi a un italiano se sia soddisfatto del suo lavoro, e uno su due risponderà di no. In un mercato del lavoro che funzioni, chi è dotato delle giuste competenze cambia lavoro agevolmente. La domanda da parte delle aziende c’è. Un dato di fatto è che l’esigenza del posto fisso è meno sentita. Lo dimostra la diminuita partecipazione ai concorsi per assunzioni nell’amministrazione pubblica. E’ anche vero però che tra i giovani non aumenta l’attitudine imprenditoriale. La tendenza a mettersi in proprio è anzi in calo. Potremmo mettere ciò in relazione con quel senso di sfiducia, descritto dal CENSIS nel suo ultimo rapporto sulla società italiana con il termine di “sonnambulismo”. 

 

Una questione spesso dibattuta dagli esperti è la difficoltà del reinserimento lavorativo per chi resta disoccupato. I meccanismi di formazione professionale sono carenti, e insoddisfacenti i dispositivi per il sostegno temporaneo a chi cerca di passare da un lavoro a un altro o da un’azienda a un’altra. Può dirci cosa non funziona da questo punto di vista in Italia e quali potrebbero essere i rimedi?

Un lavoratore che a 45 anni di età sia licenziato da un’azienda poco strutturata, e per un anno rimanga estraneo a qualunque processo di riqualificazione, molto difficilmente riuscirà a reinserirsi nel mondo del lavoro. Il fatto è che le aziende cercano competenze, non persone. L’offerta formativa varia per efficacia di Regione in Regione. E poi bisognerebbe che i Centri per l’Impiego fossero capaci rapidamente di dire al disoccupato quali sono i corsi che può seguire e dove. La situazione invece allo stato attuale delle cose è la seguente. Dei 1.800.000 disoccupati che fruiscono del NASPI, l’indennità mensile di disoccupazione, gran parte (1.600.000) sono iscritti al GOL ed hanno ricevuto indicazioni per orientare il proprio reinserimento occupazionale. La metà di questi ultimi, quindi circa 800 mila, è stata impegnata a seguire corsi di riqualificazione, cosa che purtroppo viene fatta ad oggi però da meno della metà e non per colpa del disoccupato, ma per la difficoltà dei sistemi regionali nell’avviare i percorsi in un tempo idoneo, soprattutto nel Mezzogiorno. Dobbiamo accelerare e migliorare la capacità delle regioni di promuovere i percorsi di riqualificazione ed accompagnamento al lavoro. 

 

Come giudica le politiche per il lavoro promosse dai diversi governi negli ultimi anni? Cosa dovrebbe essere fatto? 

Passata la pandemia, abbiamo assistito a un calo della disoccupazione, al quale si è accompagnato non solo un aumento del numero di lavoratori attivi ma anche (questo più recentemente) del numero di ore lavorate. Per rifarsi alla solita immagine deI bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ciò che ho appena detto corrisponde al bicchiere mezzo pieno, che è però mezzo vuoto se consideriamo la difficoltà delle aziende nel reperire le risorse necessarie: ogni due figure professionali richieste, ne trovano solo una. Inoltre la ripresa economica è vigorosa in certi territori e in altri no. Le Regioni più arretrate non ricevono adeguato sostegno dai servizi pubblici che sono spesso inadeguati. Occorrerebbe promuovere maggiormente gli enti bilaterali come Fondimpresa o il Fondo di solidarietà bilaterale per l’Artigianato. Un modello adatto e di riferimento per noi è quello tedesco in cui le parti sociali sono davvero coinvolte nella promozione delle politiche attive del lavoro e nella formazione e riqualificazione. Il potenziamento della bilateralità è una delle strade da percorrere, insieme a quella delle Academy aziendali e delle reti territoriali pubbliche e private. 

 

In altri Paesi europei strumenti simili a quello che da noi si chiama reddito di cittadinanza funzionano e sono largamente accettati dall’opinione pubblica. Da noi invece il reddito di cittadinanza (ora in gran parte abolito) viene spesso etichettato come un premio alla pigrizia. Lei che ne pensa?

La questione è complessa. Il reddito di cittadinanza doveva essere un reddito erogato a chi viveva in povertà con lo scopo di portare quell’individuo a trovare un lavoro. La prima parte del programma è stata realizzata, e ciò è stato particolarmente positivo durante l’emergenza Covid per fornire aiuto a chi si trovava in difficoltà spesso drammatiche. Non è stata realizzata la seconda parte del progetto, cioè una politica attiva per il lavoro. Sono stati spesi 30 miliardi per fornire il reddito di cittadinanza senza che ciò avesse effetti sull’accesso al lavoro. Il povero rimane povero. Invece l’obiettivo avrebbe dovuto essere quello di spingere il povero a trovare lavoro per uscire dalla povertà. Finita la pandemia le imprese hanno ricominciato a produrre, mentre chi percepiva il reddito di cittadinanza è rimasto inattivo. Negli altri Paesi europei si danno delle indennità a coloro che vivono in povertà purché si impegnino ad acquisire attraverso corsi di formazione gli strumenti per trovare lavoro e uscire dalla povertà. Ora in Italia al Reddito di Cittadinanza è stato sostituito l’Assegno di Inclusione, che viene erogato a individui che vivono in condizioni di povertà e non sono occupabili perché, ad esempio, devono assistere persone del loro nucleo familiare con problemi di disabilità. Agli “occupabili” viene invece dato un contributo di 350 euro purché frequentino corsi di formazione e politiche attive. La riforma è partita da poco, ed è ancora presto per parlare dei risultati, ma sarà fondamentale il funzionamento delle reti territoriali e dei soggetti coinvolti. E’ importante che ci sia un livello nazionale condiviso, che non divida troppo i territori per qualità e capacità di erogazione dei servizi.



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